CATALOGO MOLTO MILITANTE DEGLI AUTORI “ANNI ZERO”

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Inizia con un invito alla lotta, alla lotta vera, l’antologia di Andrea Cortellessa Narratori degli anni Zero (numero triplo della rivista L’Illuminista, pagg. 704, euro 30). Si tratta di una citazione del critico russo Viktor Å klovskij: “Il punteggio d’Amburgo è importantissimo. Tutti gli incontri di lotta sono truccati. Gli atleti si fanno mettere con le spalle a terra secondo le istruzioni dell’impresario. Ma una volta l’anno si riuniscono ad Amburgo in un’osteria e lottano a porte chiuse, con le tende tirate. Lottano a lungo, pesantemente, senza eleganza. Il punteggio d’Amburgo serve a stabilire la classe reale di ciascun lottatore e ad evitare il totale discredito. Anche in letteratura non se ne può fare a meno”. 
Rifacendosi dunque al “punteggio d’Amburgo”, questa antologia intende analizzare la situazione letteraria al di fuori delle interferenze editoriali, ormai sempre più tese ad alterare la qualità  dei testi in favore del mercato e della standardizzazione. In certo modo, la sfida si riallaccia a quando, nel 2007, la rivista il Verri dedicò un fascicolo “d’allarme” alla Bibliodiversità  messa a rischio. Un quadro tanto cupo spiega il ricorso a un classico cavallo di battaglia, ossia la scelta di un limitato numero di campioni da contrapporre a quelli celebrati nelle classifiche delle vendite. Ancora una volta in evidente polemica con tante proposte sostanzialmente promozionali, Narratori degli anni Zero rifiuta le antologie di narrativa degli ultimi vent’anni. Pur citando diversi precedenti, il suo vero “gemello” è piuttosto un altro, e va cercato in Poeti degli Anni Zero, l’antologia pubblicata da Ostuni nel 2010 sempre con L’Illuminista. Ai tredici poeti di allora, commenta infatti Walter Pedullà  nella prefazione, subentrano ora i venticinque narratori di Cortellessa – con un pensiero a Trevisan, indicato come l’assenza più rimarchevole, in quanto il suo esordio avvenne nel 1999. Non per niente, specifica il curatore, molti narratori convocati provengono da esperienze direttamente poetiche (da Permunian a Bajani, da Arminio a Raimo, da Pecoraro a Policastro, da Trevi a Pugno) o traduttorie (vedi il Chlebnikov di Nori). Né è un caso che persino prosatori “puri”, come Pincio o Pascale, siano stati letti con modalità  che sono tipiche della poesia. 
Ed ecco il primo elemento comune a buona parte dei venticinque antologizzati: la vicinanza fra i versi e la prosa. E’ proprio ciò a segnare quella condizione fluida e polimorfa che nel secondo Novecento ha avuto i suoi maestri in Beckett e Bernhard. Proprio perché le matrici della loro scrittura non sono quelle della fiction, del genere (giallo e noir) o della narrativa tradizionale, il risultato è davvero uno spazio sfinito (per dirla con un titolo di Pincio), i cui confini sono cioè sfilacciati e instabili. 
Il secondo tratto che affratella molti, se non proprio a tutti, questi autori, consiste invece nell’estremo valore attribuito alla rappresentazione iconica. Lo dimostra lo stretto rapporto che essi intrattengono con l’immagine, un rapporto assai lontano dalla mera illustrazione. Sulla scia del grande Sebald (tedesco ma trapiantato in Gran Bretagna), le fotografie impiegate ad esempio nei testi di Pincio, Trevi e Vorpsi, andranno allora considerate alla stregua di “integrazioni figurali”, così come Siti ha definito le proprie. Non per niente si è parlato di “iconotesto”, per alludere ad una narrazione che di immagini, letteralmente, si alimenta, per commentarle, rievocarle, trasformarle in vivente spunto narrativo. 
La terza, rilevante caratteristica dell’antologia, risiede invece nella brevità  delle composizioni. Secondo Calvino, il modello di tale requisito andava ravvisato in un nostro classico, ossia le Operette morali di Leopardi (ne ha parlato di recente Ruozzi su Repubblica). Citata apertamente da Cornia nelle sue Operette ipotetiche, questa linea s’incontra in diversi altri scrittori della raccolta, quali Arminio, Baroncelli, Vasta, Pascale e Trevi. Logico dunque il prevalere del racconto, con veri e propri virtuosi quali Falco, Raimo, Ricci e Gabriele Pedullà  (si veda il suo drammatico, esemplare Valle della morte). 
E siamo così alla quarta prerogativa che informa Narratori degli anni Zero. Dopo il rilievo dato alla prossimità  rispetto alla poesia e all’immagine, dopo il ricorso alla concisione, va rimarcata la fortuna del genere, oggi assai praticato, dell’autofiction, vale a dire una scrittura a cavallo tra finzione e autobiografia. In questo ambito possono rientrare autori come Trevi, Pascale, Pecoraro, lo stesso Saviano o, più esplicitamente, Babsi Jones, fino al testo “più difforme e abnorme fra quelli raccolti”, il singolarissimo dizionario autobiografico di Samonà . 
Sin qui il tentativo di riassumere, in maniera ovviamente molto schematica, le direttrici dell’antologia proposta da Cortellessa. Inutile dire che le tematiche affrontate si rivelano viceversa fra le più varie. Si va dagli anni di piombo ricostruiti da Rastello, ai non-luoghi di Pica Ciamarra (si tratti di un aeroporto o di un’infernale università ), dall’avventura di un trasloco “dada” ripercorsa da Morelli, al problematico e fecondo rapporto tra accettazione e rifiuto dell’immaginario mediatico in Lagioia, su su fino alla struggente visione antropologica della “paesologia” studiata da Arminio. 
Ma c’è un dettaglio che può tornare utile per riprendere le fila del discorso. Secondo La Porta, certi testi di Pecoraro, nati in Rete, suggeriscono la possibilità  di elevare il blog e abbassare il saggio, “fino a farli incontrare in una zona di confine che crea un nuovo genere letterario”. Ebbene, commenta Cortellessa, forse si potrebbe dire lo stesso per tutti questi scrittori. In essi, cioè, ritroviamo le tante “specie multicolori della narrativa” sacrificate sull’altare della letteratura di consumo. Insomma, al cuore della sua antologia sta la convinzione che, oltre l’urgenza del mercato, viva una produzione che non si limita a presentare romanzi confezionati, ma “attiva, mobilizza e occupa dinamicamente lo spazio testuale, contribuendo in misura decisiva a tenerlo in vita”. 
Certo, per affermare le sue tesi, talvolta il progetto forza la mano. Infatti, la condanna dell’industria culturale, da un lato fa dimenticare che alcuni dei venticinque autori pubblicano presso grandi case editrici, dall’altro provoca il rifiuto di alcuni nomi che, malgrado il successo di vendite, meriterebbero di figurare fra gli antologizzati. In tal senso, l’esclusione di Valeria Parrella, di Michela Murgia o di Alessandro Piperno sembrano corrispondere all’assenza di narratori che sviluppano una ricerca interna al romanzo tradizionale. Ma sono scelte forse inevitabili, frutto di posizioni militanti, di una poetica sperimentale e di una lotta che non si svolge su un ring, bensì a porte chiuse, in una misteriosa osteria di Amburgo.


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