La memoria al presente

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In attesa che, dopo Berlusconi, debba toccare ai Monti-Boys (e nella fattispecie al super-ragioniere Enrico Bondi e alla sua spending review) il merito storico di liberarcene definitivamente, il Capo dello Stato – in perfetta continuità  con l’indirizzo della Presidenza Ciampi e con le scelte culturali del centrosinistra italiano negli ultimi vent’anni – ha deciso dunque di non rinunciare neppure stavolta al momento più pacchiano (e inquietante) della vita repubblicana: la parata militare ai Fori Imperiali, che in previsione del 2 giugno da sempre blocca l’area al traffico per una settimanella buona, e poi il giorno fatidico pesta per ore il selciato coi cingoli dei mezzi corazzati, gli anfibi dei parà  in mimetica, gli zoccoli dei carabinieri a cavallo, i tacchi delle infermiere-glamour… il tutto sorvolato dal boato mortifero delle Frecce Tricolori. Non è bastato neppure il terremoto in Emilia e in Romagna, a far sì che almeno ai Vigili del Fuoco venisse risparmiato il gran privilegio di far parte del caravanserraglio. 
I principi dell’articolo 11
Ma, al netto dell’emergenza sismica e dei conti dei super-ragionieri, c’è da chiedersi: che c’azzecca tutta questa ritualità  col 2 giugno? Via dei Fori Imperiali è tra l’altro uno dei simboli urbanisticamente più protervi della politica (e scenografia) del piccone fascista. Mentre la festa del 2 giugno, come si sa o si dovrebbe sapere, commemora il referendum che quel giorno e il successivo, nel 1946, decretò la forma istituzionale – repubblicana – della nazione italiana. E dunque non si vede davvero perché la simbolizzazione di tale forma istituzionale debba essere appaltata in forma esclusiva proprio alle Forze armate, con tanto di deposizione di corona d’alloro al Sacrario del Milite Ignoto da parte del Presidente della Repubblica. Una Repubblica, fra l’altro, che è tra i pochi Stati a contemplare, nei propri principi costituzionali, una cosa meravigliosa come l’articolo 11 («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà  degli altri popoli», con quel che segue) – sia pure ripetutamente aggirato dal governo di Massimo D’Alema, Kossovo 1999, e dai suoi variopinti successori. 
Prima che l’evidenza dell’attualità  scatenasse la protesta generalizzata (domani le associazioni pacifiste danno vita a una serie di sit-in in varie città  italiane, mentre a Roma la Tavola della Pace raccoglierà  firme contro le spese militari e la Rete Disarmo darà  vita a una serata di incontri e dibattiti alla «Città  dell’altra economia» a Testaccio), da qualche tempo s’era cominciato finalmente a dire – per lo più dalla parte cristiana del movimento non-violento – che sarebbe ora di abolire l’orrida parata militare e sostituirla con qualcosa che ricordi – per esempio – come quella del 2 giugno 1946 sia stata anche la prima tornata elettorale ad ammettere al voto le donne, in Italia (così finalmente conferendo, anche a loro, piena cittadinanza); oppure che metta al centro la storia e i problemi attuali dei lavoratori – se è vero che, in quella famosa Carta costituzionale, l’articolo 1 dice quello che dice. Ed è quest’ultima l’idea che avevano ripreso Cgil Cisl e Uil – così interrompendo, con sorprendente alzata d’ingegno, un’annosa subalternità  rassegnata alle politiche laburicide da tempo bipartisanizzate – organizzando per domani una manifestazione unitaria appunto dei lavoratori (poi rinviata, questa sì, data appunto l’emergenza terremoto). Susanna Camusso aveva così esplicitato il cortocircuito delle ricorrenze: «l’intenzione è quella di fare il 2 giugno una festa come quella del 1 maggio per avviare un percorso di rivendicazioni».
Illusioni e convenzioni
Nel XIII dei Pensieri definisce «Bella ed amabile illusione», Leopardi, «quella per la quale i dì anniversari di un avvenimento, che per la verità  non ha a che fare con essi più che con qualunque altro dì dell’anno, paiono avere con quello un’attinenza particolare, e che quasi un’ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti» (e la paragona a quella, di converso spaziale, per cui «trovandoci in luoghi dove sieno accadute cose o per se stesse o verso di noi memorabili, e dicendo, qui avvenne questo, e qui questo, ci reputiamo, per modo di dire, più vicini a quegli avvenimenti, che quando ci troviamo altrove»). Illusione sì o, diciamo, convenzione: cioè accordo sociale che quel giorno, almeno quel giorno, ogni anno si annodi alla data passata che si intende ricordare. 
E ogni legame sociale, ci piaccia o meno, abbisogna di tali convenzioni linguistiche e prossemiche; o, altrimenti detto, di simili retoriche. Lo indicava con la consueta, lampeggiante lucidità  Andrea Zanzotto quando nella Beltà , a poca distanza dalla serie Profezie o memorie o giornali murali, intitolava una delle prime emersioni della memoria della Guerra civile (destinata poi a sempre più frequenti apparizioni, nella sua opera) Retorica su: lo sbandamento, il principio «Resistenza». Era la primavera del ’68: ed esplicitamente il 1943-45 si legava, nel bruciare analogico del suo libro più audace, alla pratica contemporanea dei «tazebao o dazibao, secondo le più correnti trascrizioni» (così recitava la nota d’autore). 
Da allora in poi, il 25 aprile per Zanzotto si è costitutivamente legato al presente (questo il senso, trans-storico, del «Principio Resistenza», mutuato da quello «speranza» di Ernst Bloch), in una serie di immagini dialettiche – per dirla alla maniera di Walter Benjamin. Per esempio in Sovrimpressioni (2001) figura una poesia dal titolo Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995), che reca la seguente nota: «La liberazione, in questi territori, avvenne il 30 aprile 1945, e già  si pensava al 1° maggio. Martiri contro ogni tirannide palese o nascosta, presente o futura; martiri nei conflitti, e vittime quotidiane del lavoro». 
Al supermarket della memoria
Lo stesso termine commemorazione, di per sé, implica che si tratti di un atto condiviso, e dunque pubblico: e non d’un anniversario individuale, da celebrare in privato (alla maniera di quelli, cui di certo pensa Leopardi, che inaugura Petrarca nel Canzoniere); ma più sottilmente allude anche al fatto che ricordare significhi collegare un punto, nel tempo, con un altro punto. Farli rimare tra loro: e così far brillare un’immagine dialettica. (Per un esempio recentissimo di «altro 25 aprile» – come ha chiamato Zanzotto una serie di suoi componimenti nell’ultima raccolta Conglomerati, 2009 -, l’installazione-performance Lettere da un fronte realizzata dalla giovane artista Paola Monasterolo al Museo Diffuso della Resistenza di Torino, rinvio a Cosa significa resistere, cosa significa ricordare: www.doppiozero.com/materiali/speciali/25-aprile-cosa-significa-resistere-cosa-significa-ricordare). 
Ma – in mancanza di questa seconda significazione, come nel supermercato della memoria pubblica, oggi, quasi sempre avviene – poche circostanze ci appaiono tediose ed esteriori, retoriche nel senso peggiore insomma, appunto delle commemorazioni (non parliamo delle corone ai Militi Ignoti, sui quali ci sarebbe da aprire una bella parentesi…). E non ci possiamo nascondere che tanto più tali – sino a rivelarcisi controproducenti – appaiono ai destinatari privilegiati, e coatti, di questi prodotti della memoria pubblica: i più giovani, coloro cioè che dovrebbero immagazzinare quelle date, quelle ricorrenze – e appunto, da quel momento in poi, ricordarsene. È anche il caso del 25 aprile e soprattutto, forse, della più recente e delicata istituzione calendariale, il 27 gennaio (il Giorno della Memoria, che a partire dal 2000 anche da noi ricorda l’apertura del cancello di Auschwitz). 
Fra i suoi infiniti motivi di riflessione, l’opus magnum che ha messo capo all’ammirevole percorso filosofico di Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio (Seuil 2000; Cortina 2003), ha saputo cogliere i sintomi di un mal du siècle tipico degli Anni Zero: il senso di soffocamento da memoria. Al centro del libro c’è una lunga parafrasi della seconda Considerazione inattuale di Nietzsche, Sull’utilità  e il danno della storia per la vita: contro gli «abusi» di una memoria ridotta a «commemorazione» (cioè rituale, istituzione, ipocrisia collettiva) e così sottratta al suo ufficio di «rimemorazione» (il rifare presente l’essere stato nel passato o, diciamo, l’esserci stato: la passione dei luoghi – nei quali la memoria è di una situazione, non di un avvenimento – che, come intuiva Leopardi, non può essere disgiunta da quella dei tempi; e la scuola storiografica dei Luoghi della memoria, che in Francia fa capo a Pierre Nora, ha saputo ben mettere a frutto questo nodo). 
Rimemorare significa risignificare: sovrimprimere a una data-simbolo, o a un luogo altrettanto simbolico, una seconda immagine, una simbolizzazione ulteriore. Non si tratta di «attualizzare» spregiudicatamente, cioè in modo casuale, asemantico, diciamo pure a capocchia (come nel caso del 1 maggio – ridotto ormai a forse ultimo brand superstite dell’industria musicale nel sempre più elefantiaco concerto pop di Piazza S. Giovanni): al contrario, di dotare di senso ulteriore il riferimento a quanto si intende ricordare. La rimemorazione non può essere un’esautorazione della memoria originaria: al contrario deve tradursi in una sua moltiplicazione, una elevazione a potenza. Interrogarci su cosa sia giusto annodare, del nostro presente, a quel passato e non a un altro, significa decidere qualcosa di importante: tanto su cosa significa quella memoria, ovviamente, che su come vivere – appunto – il presente. È su queste domande che ci si confronta, si discute, se necessario ci si divide. O ci si incontra. Con l’emersione concreta, e abbastanza sorprendente, di una dimensione che in molti di noi avevamo dimenticato, e che i tempi ci hanno portato a ri-scoprire: quella cosa che si chiama politica. (È quanto per esempio ci siamo chiesti, Christian Raimo e io per Generazione TQ, allo scopo di rimemorare davvero – in modo non meccanico né corrivo – Primo Levi e le storie della deportazione a Roma, lo scorso 5 maggio: concludendo come l’unico luogo oggi in grado di incarnare, nella nostra città , il Principio Resistenza non poteva che essere il Teatro Valle Occupato – e, se fossimo stati a Milano, saremmo andati di corsa a Macao). 
Il lavoro del senso
Nel suo libro forse più importante, Il senso del mondo (Galilée 1993; Lanfranchi 1997), rimeditando le metafore politiche di Platone, Jean-Luc Nancy ha mostrato come figura principe del politico sia appunto il legame: «il politico, allora, non sarà  né una sostanza, né una forma, ma prima di tutto un gesto: il gesto stesso dell’annodare e del legare». È il lavoro del senso, qui e ora, a produrre «un rapporto che non comunica nessun senso, salvo se stesso». Per dare un senso – un orientamento – al nostro presente non possiamo che risignificare il nostro passato. Rimemorarlo, appunto.
Il 2 giugno, col sancire l’uscita dal regime fascista e monarchico e l’inizio di uno Stato democratico e repubblicano, è l’equivalente di ciò che per i francesi è il 14 luglio. Una ricorrenza di Liberazione. Quella che dev’essere, allora, è una festa di popolo – non una parata di soldati.


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