Alberto Arbasino “Vitale e kitsch, ecco l’America Latina da Carmen Miranda a Garcà­a Mà¡rquez”

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Guardo Alberto Arbasino mentre mi raggiunge per una chiacchierata sul suo nuovo libro dedicato al Sudamerica. In una piccola busta con i manici ha portato con sé due testi. Penso che dopo “i venerati maestri” ci restino solo le leggende. E solo una leggenda gira contemporaneamente con Tristes Tropiques di Claude Lévi-Strauss e le memorie africane dello zio Tillo. Accostamento ardito. Ma in fondo non è questa l’intelligenza di uno scrittore: capovolgere il luogo comune, spiazzare l’ordinario, rendere il provocatorio a portata di mano?
Dice Arbasino: «Non è che voglia accostare le imprese di Tillo, che poi era il primo cugino di mia madre, a quelle del grande etnologo. Del resto, io quello lì non l’ho mai conosciuto. Se ne stava sempre in Africa e scriveva per il National Geographic.
Poi un giorno entro in una libreria di Buenos Aires, desolante per quanto era immensa e vuota, e tra i libri usati trovo queste memorie africane degli anni Venti. Tutto molto romanzato. Ma le foto che lui ha scattato in fondo sono molto simili a quelle che Lévi-Strauss dedicò alla tribù dei Bororo. Quel bianco e nero molto coloniale frutto di un’Europa remota convinta dei propri primati passava con indistinta arroganza da continente a continente».
Pensieri selvaggi a Buenos Aires è il titolo del suo nuovo libro (Adelphi). Sembra il richiamo per una tournée italiana con Renato Rascel vestito da gaucho.
«L’avanspettacolo ha contribuito all’immagine di quel paese. Anche se il gioco era con Lévi-Strauss. Con le analisi su la Pensée Sauvage. In fondo, quanto scrive sui mesti Bororo può essere applicato alle nostre società  letterarie».
In che senso?
«Ne parlai una volta in una di quelle conferenze organizzate dalle sorelle Antonetto. Dissi che bastava vedere nei resoconti di Lévi-Strauss come i Bororo si sedevano durante le assemblee per capire cos’era la divisione culturale in classi in Italia».
Sempre paradossale.
«Mica tanto».
Quando è stato la prima volta in Sudamerica?
«Nei primi anni Sessanta. Si andava a passare i Capodanno a Rio. Non c’erano ancora i voli diretti. Fermata a Dakar. Poi Rio e dintorni: Bahia, San Salvador. Qualche favelas. E quando capitava di passarci si veniva assaliti da gruppi di chicos de rua».
Un paese, allora, diviso tra miseria e kitsch.
«Non ho mai visto un concentrato di kitsch e di camp come nel museo delle reliquie di Carmen Miranda. Grande ballerina di samba nei suoi turbanti sfrenati».
I musei sono un luogo permanente nei suoi viaggi.
«Quelli tenuti meglio sono a Buenos Aires. Anche se poi in genere la politica dei direttori è acquisire un grande capolavoro e metterci intorno molta roba locale. Per questo a noi europei fa un effetto un po’ provinciale. Sa, è come aggiornare il cubismo e il futurismo vent’anni dopo. E poi».
E poi?
«La quantità  di finti Picasso che si trovano in America Latina è inverosimile. Ma la cosa più triste sono i teatri. Fino a pochi decenni fa ci andavano per ragioni di guadagno i nostri più grandi artisti, da Toscanini alla Callas. La crisi ha ridimensionato
tutto».
Si sono conosciuti tempi migliori.
«L’Argentina dove sono andato in quegli anni era ricchissima, allegrissima, e molto fastosa».
Anche molto colta.
«C’erano Victoria Ocampo e gli amici di Borges e Bioy Casares che avevano dato vita a riviste preziose. Sulle quali collaboravano, pagati profumatamente, T. S. Eliot e Saint-John Perse».
C’erano rapporti stretti anche con l’Italia.
«Più che a noi, che potevamo offrire scampoli di neo-realismo, si rivolgevano a Parigi. Erano un po’ di destra e conservatori. Non a caso detestavano il populismo di Evita Perà³n».
Eppure era un mito della nazione.
«Talmente grande da oscurare l’insulso Perà³n. Anche se come attrice, quando si chiamava Eva Duarte, girò film assai scadenti».
Come fa un’attrice mediocre a riscattarsi?
«Invece di sposarsi il commendatore trova in Perà³n il palcoscenico perfetto. Fu impeccabile. Basta vedere le foto. Pur nei mille accorgimenti emerge in modo straordinario. E poi muore a 33 anni. Magnifica anche nel finale».
E quella bara di cristallo in cui la rinchiudono fa pensare a una fiaba.
«Una scenografia da musical. Del resto, nel museo che le è stato dedicato sono custodite cose sensazionali, insieme alle immagini di lei bellissima».
Cosa la colpisce?
«L’allure, il portamento. Diciamo che questo è il minimo per un’attrice. Vidi uno di quei documentari della Settimana in cui Evita era perfetta. In udienza in Vaticano da Pio XII. Abito nero, l’ordine di Isabella la Cattolica sul petto. Che stile. Poi, il ministro Sforza la portò in visita dentro una Fiat scoperta sull’Appia Antica. La macchina che ballava tra i sanpietrini, e lui adornato di pizzetto indicava a Evita i paesaggi solenni. Sono scene che oggi considereremmo ridicole ».
Cosa le suscita una canzone come Don’t Cry For Me Argentina?
«Fu un successo universale, indimenticabile nel suo genere. L’ascoltavi permanentemente nei taxi e nei bar. Mi chiedo cosa avremmo potuto contrapporle:
Roma nun fa’ la stupida staseranon
aveva la stessa frequenza nelle trattorie di Trastevere».
Certe canzoni racchiudono un mondo.
«Sono spesso storicizzabili e datate. Magari il loro limite è quello che ce la fa sentire pateticamente vicine».
Accade anche con i romanzi?
«Se penso ai nostri best-seller verrebbe da dire di sì. Ma non a quelli latino americani».
Cosa rappresentò per noi la scoperta di un autore come Gabriel Garcà­a Mà¡rquez?
«A dire il vero Cent’anni di solitudine uscì quasi in contemporanea al Tamburo di latta di Gà¼nter Grass. E si pensò che due tendenze fossero nate. In realtà , Grass è rimasto un fenomeno abbastanza isolato mentre invece dall’America Latina hanno continuato ad arrivare autori importantissimi».
E questa proliferazione è dipesa dal caso?
«Non dal caso, ma dal fatto che sono popoli nuovi e non vecchi come siamo noi. Molto si sposa a una vitalità  che noi non abbiamo più. I nostri best-seller, come le dicevo, raccontano di coppie in crisi, di intellettuali in crisi, di manager in crisi. Paragonata al loro vitalismo sfrenato e sopra le righe, la nostra narrativa di successo descrive la malattia del papà , le turbe del nonno, la piccina traumatizzata. Due stanze con tinello annesso».
Cent’anni di solitudine è solo vitalità ?
«È vitalità  ma anche stile e capacità  di rendere universale un microcosmo. Da noi nessuno ha preso, che so?, il Risorgimento per fare qualcosa di simile. Al massimo ci ha provato Salvator Gotta. Ci occupiamo del divano letto, dei piccoli sintomi della malattia, o dell’interessato scrittore».
Eccesso di autobiografismo?
«Sì, ma in un senso minuscolo. Non vedo nessun Ippolito Nievo in giro».
Il vitalismo si può associare al populismo?
«Perché no. Tanto il populismo è lì un fatto naturale quanto da noi risulta essere un po’ finto».
Lo scrittore più refrattario al populismo fu Borges.
«Sicuramente un’eccezione».
Lei lo ha conosciuto, intervistato. Che ricordo ne ha?
«L’impressione è stata grandissima. Non altrettanta ne ha avuta lui. La sera stessa ci rivedemmo casualmente in un ristorante romano. Lo salutai ma non riconobbe la mia voce. Fu Maria Kodama, la moglie, a ricordargli che avevamo passato tutta la mattinata insieme a San Clemente».
Di quell’intervista colpiva l’affermazione di Borges che i sogni degli scrittori devono essere sinceri.
«Beato lui. I miei sogni sono così miseri di realtà  che quando mi sveglio dico: per fortuna che il sogno è finito».
Cosa sogna?
«Sistemo i cassetti. Infilo roba vecchia nella valigia. I sogni che ritornano sono di questo tipo. Si rende conto?»
Mi rendo conto. Sogna spesso?
«Ciò che sogno quasi sempre non lo ricordo».
Quelli che ricorda fanno pensare a un bisogno di domesticità .
«Ne ho fin troppa».
A un certo punto chiede a Borges cosa pensa dell’Europa. E la sua sembra una risposta onirica.
«Poveretto, pensava che l’Europa fosse l’ultima spiaggia. Non immaginava quello che sarebbe avvenuto in questi anni».
Anche lì c’è crisi?
«Dipende dove. A me più che il Pil e i bonds argentini impressionano altre decadenze».
Quali?
«Teatri e musei vuoti. Città , come Montevideo, una volta agognate mete di emigranti di lusso, dove tutto crolla. Con il centro invaso dalle piante che sembra di essere nel Vietnam. Non ci tornerei. Come non tornerei in Perù».
Il Perù è vasto.
«A quanto pare il turismo di massa si accanisce sul Machu Picchu. L’idea di salire così in alto, esposti ai disturbi cardiaci e ai difficili pernottamenti e dove la gente si prende a gomitate, dovrebbe far riflettere sul senso del viaggio e su certe decisioni. Troppi mojito a basso prezzo».
Non se ne può più?
«Diventa faticosissimo, lì è come andare a Pompei di Ferragosto».
A proposito di Perù lei fa il racconto della processione a Lima per Santa Rosa.
«Sembrava di stare a Viterbo. Perché anche qui da noi la Santa viene ogni anno celebrata. La cosa che colpiva, in quella religiosità  smisurata, era la mortificazione cui si sottoponevano i partecipanti. Mi chiedo: perché mai il Signore dovrebbe essere contento che qualcuno si flagelli?»
Il Signore no, ma gli uomini?
«Ben vengano le coppie già  di mezza età  che si infilano in tutti quei negozietti sado-maso in cerca di fruste, borchie e tacchi a spillo, nel nome del piacere».
Questo accenno mi fa pensare al suo “elogio” di certi antichi cessi di Rio.
«Non solo a Rio. Monumentali e indimenticabili».
Impressionanti.
«Colpiva la vastità  grandiosa dei loro spazi. Decine di metri quadrati nei quali soprattutto indios, anche anziani, facevano cose per cui si restava sbalorditi. Da noi, in pubblico, non si è mai osato tanto».


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