Trieste multiculturale crocevia delle anime

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Parlar lingue diverse e capirsi comunque, oppure la stessa e trattarsi da estranei, per poi cercarsi di nuovo. Frontiere che un giorno sono ponti e l’indomani muri, costruiti e abbattuti, e di nuovo rialzati, diversi. Mescolarsi di greci e sloveni, di ebrei e cristiani, di Austria e di Italia, di invasori e fuggiaschi, di mare e di bora. Insomma Trieste. Raccontata seguendo (più di) un secolo intero di intrecci artistici, letterari, storici, sociali, geografico-naturali e architettonici, per essere infine elevata ancora una volta a paradigma di quel che un tempo si studiava sui libri come la famosa «Mitteleuropa»: e che oggi è, naturalmente, quell’assai più complessa «società  plurale» che poi è quella in cui tutti viviamo. Triestini e non.

È questo Il viaggio della signorina Vila, l’opera con la quale Elisabetta Sgarbi si presenterà  al «Festival internazionale del Film» che parte a Roma tra una settimana: non in passerella ma in concorso, nella sezione «CinemaXXI» dedicata ai film di ricerca e contaminazione. E film più «contaminato», questo della Sgarbi, non potrebbe essere.
Suo filo conduttore e spunto narrativo — sceneggiato dalla regista insieme con Eugenio Lio — sono due testi dei quali ricorre giusto ora il centenario, vale a dire l’Irredentismo adriatico di Angelo Vivante e soprattutto, nella potentissima lettura di Toni Servillo, Il mio Carso di Scipio Slataper: Vila è appunto la misteriosa giovane di cui questi, morto ventisettenne, si innamora poco più che bambino e attraverso il cui sguardo — quello dell’attrice polacca Lucka Pockaj, qui trasformata in una citazione iconografica che è addirittura un monumento al mistero quale la Ragazza dall’orecchino di perla di Vermeer — veniamo a nostra volta introdotti nel viaggio. Insieme con una antologia di protagonisti che si rinviano l’uno all’altro.
Ecco allora Claudio Magris, altro punto di riferimento narrante del film, triestino di nascita e poi di ritorno, che qui riprende quanto già  nel 2005 scriveva sul «Corriere»: «La Trieste multiculturale, crocevia e crogiolo di città  diverse, è insieme una realtà  e un mito ingannevole». Ecco il quasi centenario Boris Pahor, anche lui nato qui ma quando «qui» era il porto dell’impero austro-ungarico, ecco il poeta sloveno e antifascista Igo Gruden. Ecco Mauro Covacich e Luciana Castellina, ecco l’ungherese Giorgio Pressburger che fuggendo nel ’56 dai carri russi trova qui approdo per non andarsene più. E il critico e artista Gillo Dorfles, e lo scrittore Pino Roveredo, e l’ecoagronomo Andrea Segrè e la pittrice Alice Psacaropulo, e i rappresentanti delle comunità  ebraica e greco-ortodossa, e Susanna Tamaro che parla del vento e spiega come a Trieste il tempo conosca solo due condizioni: quando soffia la bora e quando si aspetta la bora.
Intellettuali ascoltati con quella forma di rispetto che viene spesso esaltato dal disincanto, come sottolineato dalla scelta della frase di Slataper che in sostanza apre il film: «È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardo trasognato e (…) non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà ; ai veri amici miei che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni». La natura, le persone, i luoghi, gli oggetti.
Accompagnati dalla colonna sonora di Franco Battiato, li scopriamo attraverso gli occhi di Vila: il tram che porta a Opicina, la sinagoga, il gigantesco gasometro che rischia di essere abbattuto, il famoso ospedale psichiatrico chiuso da Basaglia e qui raccontato dal suo allievo Giuseppe Dell’Acqua, le montagne e il mare, i famosi bagni «Pedoncìn» col muro che tuttora separa gli uomini da donne e bambini e che la comunità  ebraica locale definisce come «l’unico stabilimento balneare kasher in Europa». E naturalmente il Porto vecchio, pezzo di città  vietata ai suoi stessi abitanti ma usata come set da Coppola e Leone, col suo Magazzino 18 in cui tuttora giacciono le masserizie — stoviglie, mobili, bambole — lasciate dai triestini in fuga dopo l’arrivo degli slavi: rimaste lì per mezzo secolo — osserva Vittorio Sgarbi nel film — come dovessero essere recuperate il giorno dopo. Invece.
Rispondendo al cellulare dall’auto, proprio mentre va a trovare il fratello rimasto coinvolto in un grave incidente l’altro ieri, Elisabetta spiega che il progetto di Rai Cinema — coproduttore insieme con lei — era nato con l’intenzione di «raccontare città  che esemplificassero, per la propria storia, l’idea di “porta”, di “passaggio”: io ho chiesto di raccontare Trieste». Una città  la cui storia — conclude Magris nel film — dovrebbe insegnare a «non commettere gli stessi errori già  compiuti». Per farne magari altri, d’accordo: le ultime sequenze sono dedicate agli immigrati di oggi, dai cinesi agli africani. Qualcuno che ce la fa, qualcun altro nei centri di identificazione ed espulsione. «Non ti xè più quela di una volta», dice Slataper a Vila. E poi si butta a rotolarsi su un prato.


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