IL MARKETING DI UN CLOWN

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ELA risposta, necessariamente incompiuta, scarta il consueto dilemma e dice: guai a scandalizzarsi, guai a indignarsi, specie in campagna elettorale, guai soprattutto a inchiodare il Cavaliere a uno schema ideologico. Chi ha speso due decenni a studiare il personaggio crede di aver imparato che Berlusconi, tra un colpo di sonno e l’altro, persegue un unico scopo, forse ancora più terribile di quanto bofonchiato dentro un microfono: essere e dire tutto e il suo contrario, racchiudere in sé ogni contraddizione per appianarla nell’eterno ritorno del suo comando.
Troppo complicato questo “indifferentismo funzionale”? Bene, allora si tenga conto che l’uomo che ieri ha salvato il regime mussoliniano era lo stesso che il 25 aprile del 2009 fece un comizio con un fazzoletto partigiano al collo. E quello che spesso e volentieri si sofferma a raccontare le eroiche gesta di Mamma Rosa contro i nazisti è il medesimo che intrattiene il suo pubblico con le storielle sugli ebrei e l’Olocausto.
E siccome le regolarità  sono un dono della cronaca, tocca anche ricordare che anche la Giornata della Memoria di quattro anni fa venne allietata dagli echi di una di queste simpatiche barzellette. Ben tre ormai logoratissime ne comprende il repertorio berlusconiano, censito da Simone Barillari ne “Il re che ride” (Marsilio, 2010), dove pure si apprende che “con irremovibile candore” egli è anche capace di spiegare di averle apprese dall’ambasciatore di Israele — e le risate della platea indicano purtroppo la vera disgrazia, o se si vuole la conferma che la piega buffonesca è più forte di qualsiasi affronto alla memoria.
Poi sì, certo, Berlusconi ci mette del suo. La storia chiaramente non gli interessa se non per lanciare messaggi di marketing selvatico: breve durata, effetto garantito e sicuro impatto. Né mai si è preoccupato degli spropositi che gli fioriscono in corso d’opera. Il più lieto fu quando in tv, con Bertinotti, disse che avrebbe avuto piacere di incontrare il papà  dei fratelli Cervi. Il più truce quando per sfondare il record delle meraviglie dell’anticomunismo spiegò che i cinesi non solo uccidevano i bambini come concime per i campi (ma l’ambasciata di Pechino espresse disappunto e la minaccia di ritorsioni economiche impedì una replica).
Abbastanza simpatica nel suo genere fu anche la passione che di colpo nacque in Berlusconi per don Sturzo, con tanto di placca memoriale fatta affiggere a via dell’Umiltà : “Noi ci sentiamo continuatori…”. Ci fu chi si tolse allora la soddisfazione di ipotizzare che il magnate della tv avesse scambiato don Sturzo con don Lurio, al che lui rispose piccato che aveva a lungo studiato le opere del fondatore del Ppi e una volta sfidò anche Francesco Merlo in una specie di quiz sul sacerdote di Caltagirone.
Con Mussolini il discorso è più complicato, forse perché la faccenda investe il demone dell’immedesimazione e la patologia del potere. Nel suo “L’ombra lunga di Napoleone” (Marsilio, 2007) lo storico Alessandro Campi articola bene i punti di contatto tra le due figure — forza visionaria, smania di auto-affermazione, talento comunicativo, megalomania, spudoratezza, menzogna come sigillo del comando — e il gioco di specchi psicologico che probabilmente è alla base della recidiva.
Fatto sta che nell’estate del 2003 Berlusconi ricevette a villa La Certosa il futuro sindaco conservatore di Londra Boris Johnson e lo storico anarco-conservatore Nicholas Farrell dello Spectator, e affidò loro alcune davvero molto semplicistiche valutazioni sulla bonarietà  del fascismo e di Mussolini “che non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente a fare vacanza al confino”.
Sdegno e costernazione accolsero quell’uscita, con visite alle tombe di Matteotti e di altri martiri, perfino Confalonieri disse che Silvio avrebbe fatto meglio a stare zitto. Il povero Bonaiuti, in vacanza africana, provò a replicare che erano “battute paradossali”. Ma nel gran teatro di Zelig messo in scena dal Cavaliere resti a monito l’argomento che i tre quel giorno avevano bevuto champagne ed erano un po’ brilli — e a nulla portò l’indignata replica britannica secondo cui si trattava di tè al limone.
Poi arrivarono i veri diari fasulli di Mussolini scritti negli anni 50 dalle alacri Panvini, mamma e figlia, e acquistati da Dell’Utri con il contributo di Lele Mora. A Berlusconi, poeta della manipolazione, piacquero molto, tanto che li citò anche all’Ocse. Una volta ridato, infatti, il Puzzone colpisce ancora.
L’ex premier Silvio Berlusconi In un’intervista al The Spectator, disse che il Duce «non uccideva, mandava la gente in vacanza al confino»


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