Le tensioni tra alleati segnalano coalizioni destinate a logorarsi

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Dunque, il tentativo è quello di rimarcare le differenze, più che le assonanze: seppure al riparo dagli eccessi verbali degli ultimi giorni. Ma le tensioni riemerse in queste ore fra Bersani e il Sel di Nichi Vendola lasciano trasparire l’alone di incertezza che circonderebbe un governo di sinistra dopo il voto del 24 e 25 febbraio. La protesta vendoliana contro una «coalizione mutilata» per fare spazio a Monti è indicativa. Eppure lo è quasi altrettanto, sul versante opposto, il «fuoco amico» fra Silvio Berlusconi e la Lega e partiti minori come Fratelli d’Italia.
La sua idea del «voto utile», al punto da chiedere agli elettori di esprimersi per il Pdl e magari per il Pd ma non per i «piccoli», irrita gli alleati. E le promesse sull’Imu e sul condono fiscale stanno ricevendo una messe di obiezioni. E la Lega conferma di non volerlo come prossimo premier. Di più: Berlusconi si candida a ministro dell’Economia, ma anche su questo Giulio Tremonti, che occupava quel posto nel centrodestra, replica perfidamente che deciderà  il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Non sarà  così, ma la schermaglia rispecchia il nervosismo che attraversa anche questo fronte; e che prepara una resa dei conti in caso di sconfitta. Insomma, più ci si avvicina al voto, più è evidente la camicia di forza di una legge elettorale che per anni ha costretto le coalizioni della Seconda Repubblica a formarsi in modo artificioso.
Sopravvissuto a qualunque ipotesi di riforma, il sistema di voto accentua le storture e l’inadeguatezza di alleanze spiazzate da quanto è successo dal 2008 a oggi. «Non mi ricordate le mie delusioni», ha detto in proposito il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Le liste che si rifanno a Monti tendono a segnalare, al di là  dei numeri, questo rischio di precarietà , registrato con ansia dalle cancellerie europee. È impossibile prevedere quale sarà  l’esito di un confronto scandito da un crescendo di promesse irrealistiche: una deriva che illude l’elettorato e ne aumenta in modo irresponsabile le attese. Qualunque accordo dovrà  fare i conti con le percentuali e i seggi ottenuti.
Quando Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc alleato di Monti, spiega che l’accordo col Pd «non esiste», dice una parte di verità . L’obiettivo del premier rimane infatti quello di «dialogare sulle regole del gioco a 360 gradi con tutte le forze in Parlamento». Il calcolo, o forse solo una tenue speranza, è che i due schieramenti, e in particolare il centrodestra, si disuniscano prima o comunque dopo le elezioni. Può accadere. La Scelta civica del premier fatica, tuttavia, ad apparire un polo d’attrazione di massa. Il sistema elettorale e gli appelli di Berlusconi e Bersani tendono a blindare, quasi a ibernare i rispettivi elettorati; e a ridurre al minimo la diaspora e il passaggio nell’arcipelago moderato di Monti.
«Il nostro polo è questo e non si tocca», è costretto a dire il candidato a palazzo Chigi del Pd per placare Vendola, dopo che il presidente del Consiglio uscente gli intima di «scegliere». Quanto al centrodestra, cerca di alimentare la narrativa quotidiana della rimonta, che dovrebbe concludersi con la proclamazione del sorpasso. E accusa Monti di giocare sulla paura di un collasso economico-finanziario. «Usa come ricatto lo spread», la differenza fra gli interessi sui titoli pubblici italiani e tedeschi, protesta Tremonti. «Fa capire che se non si vota per lui, lo spread risalirà . Tipiche tecniche di ricatto». Eppure, le preoccupazioni per un’Italia che si riconsegna all’instabilità  sono reali, a livello internazionale. Magari in modo strumentale, «elettorale», Monti evoca uno scenario che, per quanto sgradito, non sarà  facile cancellare.


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