Sette anni dopo un bis senza gioia

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A MONTECITORIO Giorgio Napolitano giurò con voce tonante e solo a fine serata, nel cortile del Quirinale, brevemente si commosse, ma forse più che per lui fu per l’intensità  dell’addio a Ciampi, che primo fra tutti l’aveva voluto sul Colle. Stava per compiere 81 anni, ma almeno in foto ne mostrava alcuni di meno. Oggi le agenzie riportano che è arrivato all’Altare della Patria «salendo le tante scale». A giugno gli anni saranno 88, e la questione anagrafica, il modo in cui il presidente della Repubblica ne ha parlato ieri pomeriggio alla Camera, s’imprime nella memoria per l’eleganza e la sincerità  del tratto.
A volte gli archivi dei giornalisti trasmettono l’inconsapevole rimpianto della cronaca, ma anche – senza volerlo – la crudezza del presente. Così la prima elezione di Napolitano è un evento, se non gioioso, certo lieto nella sua compostezza, anche sul piano politico. Commentò Cossiga, uscendo dall’aula con un sorriso pensoso: «Il socialcomunismo è arrivato in pace e libertà  al vertice delle istituzioni».
E neanche a dire che la situazione, pure allora, fosse tranquilla e distesa. Il centrosinistra di Prodi aveva vinto le elezioni con appena ventimila voti di vantaggio. Eleggere i presidenti della Camera e del Senato, soprattutto, non era stato né facile, né decoroso. Eppure, a rileggere gli articoli e anche solo a osservare le immagini, le figure, i titoli delle notiziole di colore, era quella un’Italia che si fidava ancora un po’ di se stessa e quindi anche del suo nuovo presidente – per quanto passato a maggioranza.
Quindi la festa dei vicini di casa, tra cui il «macellaio rosso» del rione Monti, Stecchiotti, detto «Pol-pet», e il fioraio, e il barista, e perfino il clochard, Angelo, che dormiva in un’auto sotto casa di Napolitano, auto fatta sgomberare dopo l’elezione, ma il giorno stesso tornata al suo posto per intervento presidenziale. E l’allegra sorpresa dei paesi delle vacanze del personaggio, da Capri a Stromboli a Capalbio; e l’orgogliosa felicità  degli abitanti di Partenope, con l’immancabile terno personalizzato (13-81-88); e perfino il rianimarsi dell’«antica leggenda giornalistica» secondo cui il nuovo Capo dello Stato si dilettava a scrivere e a pubblicare raffinate poesie in napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, con risoluta smentita quirinalizia, ma pazienza.
Il discorso del neo-eletto fu piuttosto istituzionale, ovvero tradizionale, farcito com’era di citazioni di illustri figure: De Nicola, Einaudi, Croce, Martino, più il binomio De Gasperi-Togliatti, un accenno alla Jotti, un altro all’europeismo di Spinelli, quindi un omaggio a Ciampi e uno a Papa Ratzinger. Ma molto meno bello e toccante, va anche detto, di quello pronunciato ieri, che rispecchia nettamente un’Italia accoratissima, sull’orlo del disastro, non solo istituzionale.
Al giorno d’oggi sette anni sono un’infinità . E se lo scampanio che risuonava in cima a Montecitorio all’arrivo del rieletto presidente non servisse anche, per antica credenza, a tenere lontani i diavoli, la più desolante e demoniaca delle tentazioni sarebbe quella di pensare che il suo primo settennato è passato invano e a nulla è servito.
Allora Napolitano fece appello in definitiva alla «maturità » della classe politica, auspicando una «adulta» democrazia dell’alternanza. Quelli che oggi in Parlamento fin troppo l’applaudivano ascoltando la sua rampogna sono senza dubbio da considerarsi i traditori di quell’auspicio e quell’appello. E tuttavia l’hanno invocato e rieletto «come una figura paterna per amministrare la giustizia tra loro, per stabilire una tregua».
L’analisi è del professor Gustavo Pietropolli Charmet, psicoterapeuta di formazione psicoana-litica, uno dei massimi studiosi dei codici affettivi e specialista dell’età  evolutiva: «Quello che resta del Padre nella società  italiana è questa figura incarnata da Giorgio Napolitano – ha spiegato ieri a www.doppiozero.com – Un uomo, un padre che difende la Madre Patria dagli eccessi dei figli ebbri di potere e di vanagloria. La sua rielezione contiene questa indicazione: state calmi, prendiamo tempo per svelenire i conflitti, diamo il potere di amministrare la giustizia a un fratello maggiore, poi vedremo cosa fare di questa eredità  che volete spartirvi in modo cruento».
Ecco, vorrà  anche dire qualcosa che oggi, per spiegare la politica, tornano utili gli psichiatri. Sette anni orsono il premier uscente Silvio Berlusconi ascoltò il discorso del Capo dello Stato a braccia conserte, concedendogli un paio di tiepidi applausi. Poco dopo dovette anche accompagnarlo all’Altare della Patria, di malavoglia, con la famosa Flaminia decappottabile – e fu ipotizzato dai soliti maligni giornalisti che per non sfigurare rispetto a Napolitano il Cavaliere sedeva su un apposito cuscino.
Ieri nessuna specialissima automobile d’epoca ha condotto Napolitano in giro per la città , e solo quattro motociclisti invece del coreografico squadrone che accompagnava i suoi predecessori. Vuol dire che la Repubblica si è messa a dieta anche sul piano cerimoniale. Ed è anche questa una novità  drammatica e significativa, forse addirittura da accogliere con gratitudine, perché quando tutto va a scatafascio i riti enfatizzano il vuoto e le magagne.
Nel maggio radioso del 2006 sembrò che Giorgio Napolitano, primo della classe per natura e vocazione, non avesse fatto altro che le prove per diventare quello che era diventato. Nell’aprile tempestoso del 2013 l’anziano presidente dà  corpo né più né meno che all’Autorità  – là  dove la maiuscola esprime la perduta dignità , ma anche la speranza di tenersela stretta.


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