LE NUOVE FRONTIERE DEL DISAGIO CIVILE

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Fin da quando comparve, nel 1929, la fortuna del celebre saggio di Freud Il disagio della civiltà non è stata omogenea. La tesi di una inevitabile opposizione tra le aspirazioni alla felicità dell’individuo e le costrizioni che la civiltà gli impone è suonata ad alcuni rigida e ad altri generica. Eppure, a quasi un secolo di distanza, l’impronta che esso ha lasciato resta profonda. Almeno in relazione a due questioni decisive. Vale a dire all’intreccio tra dimensione psicologica e sfera sociale e al rapporto tra invarianti biologiche e mutamento storico. Precisamente intorno ad esse dialogano in maniera serrata il filosofo Massimo De Carolis, i due psicoanalisti Francesco Napolitano e Massimo Recalcati e la saggista Francesca Borrelli, cui si deve anche la nitida introduzione al volume edito da Einaudi col titolo Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci.
In particolare sulla relazione complessa tra biologia e storia si erano già confrontati, nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault, con esiti tutt’altro che risolutivi. Mentre il primo insisteva sul carattere innato della facoltà del linguaggio, il secondo respingeva la stessa idea di natura umana, considerandola una costruzione di tipo storico-sociale. Un’obiezione non troppo diversa da quella rivolta a Freud da Marcuse in Eros e civiltà.
Da allora la situazione è nettamente cambiata — basti pensare alle novità dirompenti dovute allo sviluppo dell’ingegneria genetica — , ma le questioni aperte da Freud appaiono tutt’altro che esaurite. Ciò che i quattro autori condividono è da un lato l’esigenza di superare la tradizionale dicotomia tra scienze della natura e scienze umane; dall’altro il netto rifiuto di un riduzionismo cognitivista, che riduca l’attività del pensiero e della volontà a puri processi neurochimici presenti nel cervello. Se così fosse, l’apparato psichico degli individui verrebbe trattato
come un sistema governato da rigidi nessi di causa ed effetto. A venire esclusa, in questo caso, sarebbe quella distinzione tra il senso delle parole e delle azioni e la loro produzione materiale, rivendicata nel Novecento da filosofi come Frege e Husserl, Heidegger e Wittgenstein.
Ma se questo è il presupposto comune degli autori, diversi sono gli argomenti e le conclusioni che ne traggono. Proprio qui, anzi — in tale conflitto delle interpretazioni — risiede il maggior interesse del libro. In quale falda originaria affonda il disagio di cui parla Freud? Nonostante le infinite mutazioni di contesto, l’umanità è in fondo sempre la stessa o è andata incontro a una serie di trasformazioni antropologiche che ne hanno radicalmente cambiato i connotati? Quale rapporto passa tra il “da sempre” e il “solo adesso” — come si esprime Francesca Borrelli, rammentando, con Musil, che «non si può fare il broncio al proprio tempo senza riportarne danno»? De Carolis è colui che si spinge più avanti nella ricerca degli incroci tra invarianti biologiche e condizione contemporanea. Basti pensare al modo in cui oggi vengono sempre di più messe al lavoro attitudini congenite della specie umana come la facoltà creativa del linguaggio e la duttilità nei confronti dell’ambiente. Ciò non esclude, sul piano delle patologie, metamorfosi rilevanti come quella che trasforma l’antico complesso di colpa per ciò che si fa nel nuovo senso di vergogna per ciò che si è.
Quanto, poi, a Napolitano e Recalcati, a differenziarne le posizioni è il diverso punto di riferimento all’interno della scuola psicoanalitica — Freud per il primo e Lacan per il secondo. Per Napolitano anche i più sensibili mutamenti — come quello relativo al nesso tra tempo e denaro — vanno ricondotti al filo di continuità che percorre l’intera modernità. Per Recalcati — cui dobbiamo un profondo rinnovamento degli studi psicoanalitici in Italia — la replica di certi fenomeni non cancella le soglie di discontinuità che modificano in radice la fisionomia del nostro tempo. Ciò che caratterizza l’età ipermoderna è la progressiva scomparsa del desiderio, travolto dalla ricerca di un godimento talmente illimitato da divenire autodistruttivo. Che il paradigma centrale del capitalismo finanziario sia il consumo, come sostiene Recalcati, o il debito come ritiene De Carolis, non è poi il punto decisivo — dal momento che si può interpretare l’uno come il rovescio dell’altro. Ciò che più conta è ripristinare quella funzione simbolica schiacciata tra eccesso di immaginario e una pulsione di morte che sembra spezzare ogni legame sociale. Senza di che i disagi della civiltà diverranno la cifra costitutiva del nostro tempo.
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IL LIBRO
Nuovi disagi nella civiltà di F. Borrelli, M. De Carolis, F. Napolitano e M. Recalcati (Einaudi, pagg. 202, 19 euro)


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