L’Arabia Saudita arma la nuova milizia anti Assad

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Ai margini il fragile Esercito libero siriano riferimento dei governi occidentali Da Istanbul la Coalizione nazionale dell’opposizione siriana (Cn) ribadisce che alla conferenza di pace di Ginevra 2 andrà solo a una condizione: il presidente Bashar Assad non potrà svolgere alcun ruolo nella transizione politica. In realtà è la condizione che pone uno dei suoi generosi sponsor, l’Arabia saudita. Riyadh continuerà a impedire, o almeno ad ostacolare, il negoziato tra regime e opposizione sino a quando non garantirà l’uscita di scena di Assad e la fine dell’alleanza strategica tra Damasco e Tehran.

Per portare avanti questo disegno, il capo dell’intelligence saudita, Bandar bin Sultan, ha deciso di dare vita a una nuova «forza ribelle nazionale» in Siria investendo decine di milioni di dollari nell’acquisto di armi e in addestramento militare. Ne riferiva l’altro giorno anche il britannico Guardian . E’ una mossa che di fatto manda in pensione l’Esercito libero siriano (Els) finanziato dal Qatar, la milizia che sulla carta fa capo alla Cn, per lasciare spazio al Jaysh al-Islam (Esercito dell’Islam ), una coalizione di 43 formazioni ribelli nata a settembre, guidata dal salafita Zahran Alloush, che conta su molte migliaia di combattenti. Bandar bin Sultan, forte del mea culpa recitato qualche giorno fa a Riyadh dal Segretario di stato John Kerry, è certo di riuscire a persuadere gli Stati Uniti ad autorizzare l’invio di missili anti-carro e anti-aereo al Jaysh al-Islam che, in cambio, riconoscerà il ruolo e l’autorità americana. Washington da tempo finanzia e arma l’Els – con tonnellate di armamenti che transitano soprattutto per la Giordania – ma resiste all’idea di fornire missili al fronte anti-Assad temendo in futuro di ritrovarseli puntati contro.

Tuttavia è talmente forte la rabbia saudita per la linea adottata di recente dall’Amministrazione Usa – “colpevole” di non aver attaccato la Siria a settembre e di avere aperto all’Iran che Obama presto o tardi cederà alla pressione (forse l’ha già fatto). Al rafforzamento di Jaysh al Islam è subito seguita una importante riorganizzazione in casa qaedista. Ayman Zawahri, “emiro” del gruppo creato da Osama bin Laden, ha annunciato nei giorni scorsi che lo “Stato islamico in Iraq e Siria” (Siis) tornerà ad essere solo lo “Stato islamico in Iraq”, sotto il comando di Abu Bakr al Baghdadi, mentre Jabhat an Nusra, l’altra formazione qaedista, rimarrà responsabile nei territori siriani con alla guida il comandante Abu Muhammad al Joulani.

In questo modo Zawahri ha messo fine all’accesa rivalità tra le due formazioni e tra al Baghdadi e al Joulani, riducendo i problemi “operativi” registrati sul terreno. An Nusra – con migliaia di combattenti giunti da decine di paesi e responsabile di attentati suicidi che hanno ucciso anche molti civili – dovrebbe assorbire i jihadisti siriani che si erano uniti al Siis e diventare ancora più temibile sul campo di battaglia dove già rappresenta la forza militare più letale contro l’Esercito governativo siriano. A differenza dell’inconsistente Els al quale fanno riferimento vari Paesi occidentali.

Da parte loro le truppe governative mantengono l’iniziativa sul terreno, grazie anche al sostegno che ricevono da combattenti del movimento sciita libanese Hezbollah e da milizie iraniane. Nelle ultime ore hanno ripreso e poi (pare) di nuovo perduto la Base 80, vicina all’aeroporto di Nayra, un’area decisiva per il controllo delle vie d’accesso alle zone di Aleppo nelle mani di an Nusra e Liwa al Tawhid (la milizia dei Fratelli musulmani).

L’Esercito ha fatto progressi anche a Ghouta, a Est di Damasco, dove però, stretti da settimane nell’assedio dei governativi, non solo i jihadisti ma anche migliaia di civili sono in condizioni disperate e soffrono la fame, secondo una denuncia dell’opposizione siriana. Intanto ieri è arrivata a Damasco una delegazione palestinese, guidata da Zakariya al Agha, un membro del comitato esecutivo dell’Olp. Nella capitale siriana al-Agha ha sottolineato la necessità di mantenere la neutralità dei campi palestinesi in Siria come zone neutrali e di garantire spostamenti sicuri per i profughi rimasti coinvolti nella guerra civile. Almeno 1.500 palestinesi sono stati uccisi nel conflitto in corso in Siria e circa 250.000 profughi hanno dovuto lasciare i loro campi.


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