Gezi park. Tra i ribelli turchi armati di libri contro i blindati

Gezi park. Tra i ribelli turchi armati di libri contro i blindati

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ISTANBUL. CENTINAIA di poliziotti con i manganelli o addirittura i fucili in mano presidiano una rivolta del tutto pacifica, fatta con i fiori e — massima trasgressione — leggendo dei libri seduti per terra.
Il Gezi Park si apre davanti, con i suoi 600 alberi difesi un anno fa da un taglio sconsiderato per far posto a un centro commerciale, motivo di una repressione sanguinosa costata 8 morti e centinaia di feriti. Il prato è calpestato da agenti in divisa e in borghese. Pochi giovani lo percorrono, addossandosi ai tronchi. Basta infatti accompagnarsi a una borsa poco più che voluminosa, e subito scattano i controlli. Nulla sfugge qui agli occhi dei poliziotti, che paiono vivisezionare ai raggi X ogni passante.
Dietro i Toma e le transenne blu, nella viuzza del garage dove dormono i tramvai rossi che solcano Istiklal Caddesi, via dell’Indipendenza, fino alla torre di Galata, altri blindati ben sorvegliati dagli
agenti sono pronti a entrare in azione. Ma la strada teatro poche ore fa di scontri e incidenti appare adesso la solita arteria inzeppata di turisti, e dai ristoranti e i negozi alla moda a esplodere è tutt’al più la musica assordante del pop turco.
Non così però è ad Ankara, dove la polizia ha lanciato lacrimogeni e usato idranti contro centinaia di manifestanti. Cinquecento persone sono state disperse a Piazza Kizilay, il centro della capitale, nel luogo in cui l’anno scorso fu ucciso un giovane di 26 anni dalle pallottole sparate dagli agenti. Solo sabato, a Istanbul, dice Human Rights Association, sono state arrestate 83 persone. I feriti risultano almeno 14, di cui sei sotto i 15 anni. Tra loro un ragazzo che ha perso un occhio per un lacrimogeno.
Due dati colpiscono rispetto al passato. Il primo, la legge voluta dal premier Tayyip Erdogan a febbraio, mirata a punire con il carcere chi soccorre i feriti al di fuori del Pronto soccorso ufficiale. Come ha raccontato l’altra sera lo stesso fotoreporter italiano Piero Castellano, rimasto contuso dal lancio di un lacrimogeno, «questo è un provvedimento fatto proprio per scoraggiare le manifestazioni. Se un dimostrante viene ferito, per la legge dovrebbe rimanere a terra fino a quando non viene trasportato dalle ambulanze al Pronto soccorso». La nuova misura ha portato così, l’altro giorno, all’arresto di 4 medici, costretti a comparire oggi davanti al giudice con l’accusa di aver soccorso i manifestanti a terra. «Speriamo non ci sia anche quello che mi ha medicato», commenta con amarezza Castellano, aiutato da un pronto soccorso clandestino.
L’altra novità è stata invece registrata durante il fermo, solo temporaneo, del giornalista della Cnn, Ivan Watson. Un ufficiale di polizia lo ha interrotto bruscamente mentre era in diretta da Piazza Taksim, tirandolo per la giacca e chiedendogli di mostrare tessera professionale e passaporto: «Sei un giornalista? — gli intimava — facci vedere il passaporto, il passaporto!». Mai è successo in Turchia, almeno negli ultimi decenni, che i reporter siano costretti a mostrare i documenti per realizzare il loro lavoro. Un’ennesima stretta delle autorità.
YouTube, del resto, è tuttora inaccessibile qui, nonostante la decisione della Corte Costituzionale di togliere il blocco per favorire la libertà di espressione. Ma il governo conservatore islamico, forte del risultato elettorale conseguito alle amministrative del 28 marzo (oltre il 46 per cento delle preferenze), impone il suo credo nonostante l’altra metà del Paese critichi con forza i modi spicci del premier. Lo stesso avviene per Twitter, mentre pure Facebook e Google sono entrati nel mirino.
Di fronte a media sempre più omogenei nel seguire il leader, infatti, sono proprio i social network i più attivi nel comportarsi da “cane da guardia” della democrazia, denunciando i fenomeni di corruzione. Erdogan scarica nei loro confronti tutta la sua rabbia, minacciando loro e la stampa straniera.
Eppure, scrive sulla prima pagina del Hurriyet Daily News l’editorialista Guven Sak, «lo spirito di Gezi Park e la guerra di Twitter continuano». I giovani che si annidano dietro gli alberi del parco di Piazza Taksim, impediti a manifestare per strada, si ritrovano sempre più numerosi e attivi sul web e sulle piattaforme sociali mobili. Che cosa potranno fare i Toma dal muso feroce, sistemati ai bordi del monumento al laico Ataturk, contro la forza inevitabile della piazza virtuale?



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