Alle radici delle tor­ture italiane

Alle radici delle tor­ture italiane

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Se Genova del luglio 2001, con il suo carico inde­le­bile di tor­ture, cica­trici nei corpi e ferite nella memo­ria, costi­tui­sce un indub­bio spar­tiac­que nella sto­ria recente ita­liana, Napoli, marzo 2001, costi­tui­sce la prova gene­rale della «macel­le­ria mes­si­cana». Nel primo caso il pre­mier era Sil­vio Ber­lu­sconi, nel secondo Giu­liano Amato. Governi di orien­ta­mento e com­po­si­zione dun­que dif­fe­renti, ma con un tratto uni­fi­cante: il capo della poli­zia in entrambe le occa­sioni era Gianni De Gen­naro; il quale pro­se­guirà la sua car­riera al ver­tice dei ser­vizi segreti, poi quale sot­to­se­gre­ta­rio di Stato per la sicu­rezza della Repub­blica e, attual­mente, come pre­si­dente di Finmeccanica.

Di Genova 2001 si è tor­nato a par­lare, gra­zie alla Corte euro­pea per i diritti umani, sino a ripe­scare dal dimen­ti­ca­toio, tar­di­va­mente e svo­glia­ta­mente, la pro­po­sta di intro­du­zione del reato di tor­tura nel codice penale. Della sua prova gene­rale è, invece, andata persa ogni memo­ria. Eppure, anche lì, nella caserma Raniero, fu isti­tuita un’apposita «stanza delle tor­ture», men­tre i mani­fe­stanti, già feriti e per­cossi, furono addi­rit­tura pre­le­vati dagli ospe­dali e dal pronto soc­corso per essere con­dotti in quell’infame luogo, tanto che i poli­ziotti ven­nero impu­tati anche di seque­stro di persona.

Inu­tile dire che alla fine nes­suno fu con­dan­nato e che il capo della poli­zia soli­da­rizzò con gli agenti accusati.

La rimo­zione di que­gli avve­ni­menti è pro­ba­bil­mente faci­li­tata dalle ipo­cri­sie di certa sini­stra e dalle sue lun­ghis­sime code di paglia. Ma, soprat­tutto, can­cel­lare le tracce e il ricordo di tali misfatti serve a impe­dire inter­ro­ga­tivi sul filo, nero e sot­ter­ra­neo, che lega prima e seconda Repub­blica non­ché governi di oppo­ste mag­gio­ranze. Uno «Stato nello Stato» la cui fina­lità, natu­ral­mente, è il potere e la pro­pria con­ti­nuità; stru­menti e con­di­zioni per assi­cu­rarla sono l’incontrollabilità e, appunto, l’impunità.

Uno dei volti e delle ricor­renze di que­sto potere è l’utilizzo della tor­tura: uno stru­mento che abbi­so­gna di omertà, per quanto riguarda la catena ope­ra­tiva, e di incon­di­zio­nata coper­tura per quanto riguarda l’aspetto poli­tico. È stato così a Genova, con il rifiuto di isti­tu­zione di una com­mis­sione di inchie­sta e con il vice­pre­si­dente del Con­si­glio Gian­franco Fini pre­sente nella sala ope­ra­tiva della Que­stura di Genova durante i fatti e con il mini­stro della Giu­sti­zia Roberto Castelli in visita a Bol­za­neto men­tre erano in corso le tor­ture. È suc­cesso lo stesso a Napoli, con mem­bri di governo e ver­tici della poli­zia A soli­da­riz­zare pub­bli­ca­mente con i poli­ziotti impu­tati. Era suc­cesso negli anni Ottanta del secolo scorso, quando solo i Radi­cali e rari gior­na­li­sti ebbero il corag­gio di denun­ciare le tor­ture allora accadute.

I «Garage Olimpo» non erano solo in Argen­tina. Davanti al docu­men­tato dos­sier del par­tito Radi­cale il pre­si­dente del Con­si­glio allora in carica, Gio­vanni Spa­do­lini, definì i nume­rosi epi­sodi di tor­tura «pale­se­mente inve­ro­si­mili», arri­vando a ipo­tiz­zare che la denun­cia fosse una stra­te­gia messa in campo dalle orga­niz­za­zioni armate, come «ultima carta per accre­di­tare l’immagine di uno Stato tor­tu­ra­tore e sevi­zia­tore, ten­den­zial­mente autoritario».

Era il 1982. Uno dei par­la­men­tari radi­cali, Marco Boato, con­cluse ama­ra­mente: «è la prima volta che la tor­tura viene denun­ciata come pra­tica siste­ma­tica, senza susci­tare, salvo raris­sime ecce­zioni, né pro­te­ste, né con­danne, né inchie­ste ammi­ni­stra­tive». Un’assenza di rea­zioni che è stata anche in seguito, e per­mane, una costante. Giac­ché va garan­tito che quell’armadio della ver­go­gna rimanga sigil­lato, a tute­lare impu­nità di Stato e con­ti­nuità di carriere.



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