L’agricoltura chimica è un altro regalo alle multinazionali

L’agricoltura chimica è un altro regalo alle multinazionali

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NEL 1962 usciva negli Stati Uniti un libro intitolato Primavera silenziosa. L’autrice di quel testo, che rimane tuttora uno dei volumi fondamentali per il movimento ambientalista, si chiamava Rachel Carson e aveva impiegato quattro anni del suo lavoro per esplorare gli impatti ambientali e sulla salute umana dell’uso dei pesticidi in agricoltura. Tra questi, in particolare, c’era il Ddt, prodotto da un’azienda di St. Louis, la Monsanto, e usato per combattere la zanzara anofele, responsabile della diffusione della malaria. Inizialmente si credeva che il Ddt non avesse conseguenze sulla salute umana, tant’è che il suo inventore, il chimico svizzero Paul Hermann Müller, nel 1948 fu insignito del premio Nobel in fisiologia e medicina. Se dieci anni dopo si arrivò a vietarlo negli Stati Uniti fu anche grazie al libro di Carson che, nonostante la violenta campagna messa in atto contro di lei dall’industria chimica – Monsanto, Velsicol e American Cyanamid in testa – supportata dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, ebbe il coraggio di sostenere le proprie opinioni.

Parlare di questa vicenda ha senso ancora oggi perché come un disco rotto sembra ripetersi, benché i nomi cambino, almeno in parte. Monsanto non produce più il Ddt, né tantomeno i Pcb (policlorobifenili), che hanno vissuto una vicenda analoga di approvazioni e successivi divieti. Dal 1974, però, il suo prodotto di punta è diventato il glifosato, l’erbicida più efficace e venduto al mondo, commercializzato con il nome di Roundup – le cui vendite viaggiano di pari passo con quelle delle sementi geneticamente modificate Roundup Ready, ossia predisposte a tollerare questo erbicida. Da quando il brevetto di Monsanto è scaduto, un’inchiesta di Die Zeit mostra che, soltanto in Germania, sono approdati sul mercato ben 80 prodotti nella cui composizione rientra il glifosato. Anche in Italia, il glisofato è uno dei prodotti fitosanitari più venduti.

Come per il Ddt di un tempo, è attualmente in corso un acceso dibattito sull’innocuità o pericolosità di questa sostanza le cui tracce sono state individuate negli ortaggi e nei frutti, in prodotti a base di cereali, nel mais e nella soia Gm che compongono i mangimi animali. Lo scorso marzo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato il glifosato come “probabilmente cancerogeno”. Poco tempo dopo sono arrivati due pareri di segno opposto e contrario: l’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr) ha valutato il glifosato come “non cancerogeno” e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), lo ha classificato come “probabilmente non cancerogeno”. Come riferisce Die Zeit, nel formulare il proprio parere, si sono ampiamente fondati su studi non pubblicati, commissionati dalle stesse aziende produttrici di fitofarmaci.

Nei prossimi giorni, la Commissione europea dovrà rinnovare o revocare l’autorizzazione all’uso del glifosato nelle campagne europee. La valutazione della Commissione dovrà mettere a confronto due approcci completamente diversi. Da un lato quella delle corporation, che sostengono che il glifosato abbia incrementato i raccolti, garantisca l’alimentazione a livello globale, salvi vite umane dalla fame. Dall’altro quella della società civile, che perora la causa della messa al bando del glifosato e la necessità di un’agricoltura che si affranchi il più possibile dalle sostanze chimiche (per questo motivo, We Move Eu ha attivato un’ampia campagna di mobilitazione – Stop Glyphosate – alla quale aderisce anche Slow Food). Bisognerà decidere se il futuro del cibo è in mano all’industria chimica o a una politica che abbia a cuore la salute dei consumatori, il benessere ambientale e una primavera vera, sempre meno silenziosa. Il problema della sicurezza alimentare non è una questione di basse rese agricole, ma di troppi sprechi e di scarse possibilità di accesso al cibo. È un problema politico. È un problema sociale.



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