Luigi Ciotti: La società senza diritti diventa una giungla e un deserto

Luigi Ciotti: La società senza diritti diventa una giungla e un deserto

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Intervista a Luigi Ciotti, a cura di Sergio Segio, dal 14° Rapporto sui diritti globali

«Finché saremo capaci di vedere e di denunciare le ingiustizie e il crimine, i corrotti e i corruttori non vinceranno», dice don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, ricordando come il cardinal Martini, otto anni prima di “Mani Pulite”, individuasse la corruzione come una delle grandi malattie che corrodono la società. Anche Papa Francesco ha giudicato quel male peggiore del peccato e imperdonabile. Per contrastarlo, dice don Ciotti, serve anzitutto un grande impegno educativo, che metta in discussione il conformismo e i “valori” oggi dominanti, a cominciare dal denaro, divenuto un fine che giustifica ogni mezzo, e dall’avidità.

 

Rapporto Diritti Globali: Le povertà e le diseguaglianze continuano a crescere, in Italia, in Europa e nel mondo. Complice la crisi, ma, prima ancora, un sistema economico e sociale che drena le risorse e le indirizza verso l’alto. Il contrario, insomma, di quel che prometteva la globalizzazione neoliberista nei decenni scorsi. Di fronte al crescere dei bisogni, si continua a ripetere che i soldi non ci sono. Da ultimo, lo scandalo – subito sopito e dimenticato – dei “Panama Papers” dimostra invece come enormi ricchezze sono accumulate, sottratte alle tasse e dunque alla collettività. Che si può fare?

Luigi Ciotti: Nel 1984 l’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, parlò di tre grandi mali che affliggevano la società: la violenza, la solitudine, la corruzione. E definì quest’ultima la “peste bianca”. In quegli anni gran parte dell’attenzione politica e mediatica era indirizzata sul terrorismo, per quanto ormai in fase calante. Quindi quella forte denuncia rimase inascoltata, nonostante venisse da un pulpito così autorevole. Eppure, almeno a posteriori, va riconosciuto quanto fosse acuta e anticipatrice: l’inchiesta “Mani pulite”, esplosa otto anni dopo proprio nella città del Cardinale, grazie al lavoro del pool della Procura di Milano e al consenso sociale che lo sostenne, mostrò la profondità e la ramificazione del fenomeno corruttivo. Da quegli eventi è passato quasi un quarto di secolo. Il mondo è letteralmente cambiato. Nel nuovo secolo le geografie, sociali e territoriali, si sono complicate. La fine della Guerra fredda e il crollo del Muro di Berlino hanno lasciato posto a tanti nuovi e sanguinosi focolai armati e a mille nuovi muri. La politica non si è risanata e sembra sempre meno in grado di progettualità e di effettiva capacità di governo, prerogativa ormai dei poteri finanziari e delle tecnocrazie.

Quella che sembra pressoché immutata è la “peste bianca”, un’idra dalle tante teste: ogni volta che si riesce a mozzarne una, ne rinascono altre, col rischio che il mostro riesca a sconfiggere la giustizia e la democrazia, erodendola poco per volta, pezzo dopo pezzo. Quel che è emerso con i “Panama Papers” è indicativo. Altrettanto lo è il silenzio e la mancanza di iniziativa che ne sono seguiti.

Per fortuna, scomparso il compianto Martini, altre voci e profetiche si stanno levando in questi tempi: penso a Papa Francesco, alla lucidità e coraggio con i quali sta denunciando l’“economia di rapina”, i mercanti di morte che alimentano le guerre, i nostri fratelli migranti troppo spesso respinti, il pianeta violentato dalla sete di profitto. Allora, mi dico che, nonostante tutto, bisogna avere fiducia e speranza. Finché saremo capaci di vedere e di denunciare le ingiustizie e il crimine, i corrotti e i corruttori non vinceranno.

 

RDG: Altri avvenimenti recenti ci mostrano però che non sono soli i poteri criminali a sottrarre ricchezza sociale. Il contenzioso dell’Europa con grandi e rispettate multinazionali che accumulano miliardi senza alcuna tassazione ci mostrano, da un’altra angolatura, la mole enorme delle ricchezze concentrate in pochissime mani in pochi decenni non violando le leggi, ma grazie alle leggi. L’esercito dei 50 mila lobbisti che quotidianamente preme a Bruxelles su Parlamento e Commissione Europea serve – anche – a questo. Come ci si difende?

LC: Certo, elusione ed evasione fiscale sono parenti stretti della corruzione, fanno parte di una stessa famiglia che si chiama avidità, sete di denaro, mancanza di responsabilità sociale. Prima della legge dei codici, che a volte serve il potere invece della giustizia, ce n’è un’altra scritta dentro le coscienze di ognuno. A volte è sopita, a volte no, ma quella voce è capace di indirizzarci verso ciò che è buono e giusto.

Nella riflessione che Papa Francesco, ancora cardinale Bergoglio, ha voluto dedicare a questi temi (Guarire dalla corruzione, EMI editore) viene messo in luce come il problema della corruzione sia innanzitutto nella coscienza di chi la esercita. Una persona che si limita a rubare, per quanto cerchi di giustificarsi, sa che la sua è un’azione eticamente sbagliata e penalmente rilevante. Il corruttore (e il corrotto) depenalizza invece il reato già nella sua coscienza, lo minimizza e lo giustifica, trova sempre nuovi pretesti e complici finché il senso di colpa svanisce o finisce addirittura per trasformarsi nel suo contrario, nella convinzione che quel denaro estorto, quei favori ottenuti, siano, se non meritati, legittimi. Per questo il Papa giudica la corruzione più grave di un peccato («Potremmo dire che il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata») dal momento che il peccato offre sempre una possibilità di conversione, mentre la corruzione, in quanto negazione di vita e di speranza «puzza, odora di putrefazione». Ed è per questo, mi permetto di aggiungere, che per combatterla occorrono, oltre che buone leggi, un grande impegno educativo. E anche una visione culturale che sappia contrastare il conformismo e i “valori” dominanti: oggi il denaro, da strumento, si è fatto valore in sé, fine che giustifica ogni mezzo, anche quelli illeciti o violenti. In questa breccia morale si fanno spazio non solo le mafie, ma quella “peste bianca” dalla quale non bisogna mai sentirsi del tutto immuni.

Per questo il semplice richiamo alla legalità non basta. Prima della legalità viene la responsabilità, che è la coscienza di essere liberi ma anche la coscienza del compito che la libertà ci assegna: quello di essere liberi con gli altri e non contro gli altri, impegnando la nostra libertà per liberare chi ancora libero non è.

 

RDG: La questione è che, spesso, magari non sotto i nostri occhi, ma appena dietro l’angolo, la vita dei giovani e di tutti è messa in pericolo da quei poteri e interessi che in nome della liceità – anzi, del valore – del profitto non esistano a vendere morte, a costruire muri e barriere, addirittura a lucrare sulla pelle dei migranti che riescono a sopravvivere al viaggio e finiscono in uno dei nostri centri di “accoglienza”, come, da ultimo, ha di nuovo documentato il giornalista Fabrizio Gatti sul settimanale “L’Espresso”. Dobbiamo rassegnarci all’idea che la vita di chi è nato in Medio Oriente, in Africa o in certe parti dell’Asia abbia meno valore come sembrano dirci le cronache quotidiane e l’indifferenza sociale che le accompagna?

 

LC: Io penso che il dramma dei migranti sia davvero un Olocausto dei giorni nostri, di fronte al quale occorre un soprassalto di umanità, riflessione, responsabilità politica. E anche di memoria. Dei tempi in cui gli stranieri, gli albanesi, i siriani, gli africani, i romeni, eravamo noi. E non solo nella ricca America: io li ricordo bene i cartelli «non si affitta a meridionali» affissi sulle porte di alcune case di Torino.

Sono cambiati i volti e le storie. Ma i bisogni e le speranze, quelli sono ancora gli stessi. Vale per i migranti e vale per ogni povero, del Sud come del Nord del mondo. I poveri hanno sempre necessità materiali impellenti – casa, lavoro, cure – ma prima ancora hanno bisogno di dignità. Non basta accogliere: bisogna riconoscere, cioè dare cittadinanza. E oggi la cittadinanza non è solo negata: viene tolta. Un dato nuovo di questa crisi è l’erosione di quello che veniva chiamato “ceto medio”, il precipitare nella povertà di tante persone ritenute un tempo benestanti. Questo contribuisce ad alimentare nella società i cattivi sentimenti, anzi i ri-sentimenti verso chi sta ancora peggio ma viene visto come concorrente e nemico. Non possiamo uscirne senza rimettere al centro la questione dei diritti. Dei diritti per tutti. Una società senza diritti crolla, diventa prima una giungla e poi un deserto. I diritti non sono solo una questione di umanità, ma il presupposto di ogni progresso sociale, civile, economico.

 

RDG: La questione dei diritti e della cittadinanza è intrecciata a quella dell’uguaglianza. Non a caso, lo stato d’eccezione varato in Francia a seguito dei tragici attentati che l’hanno colpita ha cercato di introdurre la revoca della nazionalità. In che è particolarmente triste e indicativo nel Paese della rivoluzione che aveva messo al centro programmaticamente Liberté, Égalité, Fraternité. In un’Europa sempre più divisa e percorsa dalle tossine della xenofobia, si tende ad attribuire diritti solo a chi fa parte della stessa nazione, etnia, religione. Non sarebbe tempo e caso di reagire, almeno a livello morale e culturale, recuperando un’idea di cittadinanza universale che sembra totalmente archiviata? Di fronte al disastro che vediamo a diversi livelli, non è il caso, forse, di recuperare qualche vecchia e sana utopia?

 

LC: È il paradosso di questa globalizzazione, centrata sull’economia, il commercio e la finanza, e di questa Europa, costruita solo attorno alla moneta comune. Alla massima libertà e mobilità delle merci corrisponde il minimo di diritti e di riconoscimento reciproco tra le persone. Ciò unito al fatto che non riusciamo più a “vedere” l’altro: e non solo perché il sistema mediatico ha raggiunto livelli di sofisticazione e di manipolazione tali da rendercelo irriconoscibile o, meglio, conoscibile solo attraverso stereotipi, per cui l’immigrato è un usurpatore, l’islamico un potenziale terrorista. Ma perché noi stessi ci siamo consegnati a una cecità psicologica, emotiva, culturale, concentrati come siamo solo su noi stessi. È quella che il Papa chiama “globalizzazione dell’indifferenza”. L’utopia da perseguire con maggiore urgenza è il ridiventare capaci di guardarci dentro e fuori, di mettere in discussione ciò che siamo e ciò che pensiamo, di smettere di credere di essere superiori agli altri e detentori dell’unico modello di vita possibile. Non è solo il tema dell’uguaglianza, a dover essere recuperato, ma anche quello della relazione tra differenze. La vera utopia è realizzare un mondo dove ci riconosciamo diversi come persone e uguali come cittadini. Anche qui ragionamenti profondi e puntuali sono venuti dal Papa, con la sua enciclica, dove è arrivato a parlare della necessità di una conversione ecologica dell’economia. L’uomo deve ritrovare la consapevolezza di essere legato alla terra in un rapporto organico e dunque smettere di sfruttarla, avvelenarla, piegarla a mire di profitto. Che è quanto sta invece facendo, in misura e velocità sempre maggiore, l’economia globalizzata, causa di disuguaglianze e povertà crescenti e dunque di conflitti e migrazioni forzate, perché non può essere pacifico un mondo ingiusto, dove milioni di persone sono private dei diritti fondamentali e la distribuzione delle risorse non viene decisa in base agli interessi della comunità ma delle multinazionali.

È su questi fronti che deve muovere una resistenza, sulla base di un impegno capace anch’esso di globalizzarsi, di cogliere le connessioni e i molteplici volti dell’ingiustizia. Non so se questa sia un’utopia, certo è un’esigenza di vita, prima ancora che una visione politica. Perché è lampante, e dimostrato ormai da montagne di studi, di dati e di approfondimenti scientifici, che ecologicamente e socialmente, questo stato di cose è catastrofico e produttore di morte. Dobbiamo allora resistere, ribellarci, costruire un’alternativa. Certo è difficile. Ma lo sarà di meno se lo facciamo insieme.



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