Introduzione di Sergio Segio al 14° Rapporto sui diritti globali

Introduzione di Sergio Segio al 14° Rapporto sui diritti globali

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DEL RISCHIO DI ESTINZIONE DEL COLIBRì. 

Le ragioni dimenticate dei movimenti

[estratto dall’Introduzione di Sergio Segio al 14° Rapporto sui diritti globali. La versione integrale è qui scaricabile in .pdf]

 

Globalizzazione e altermondialismo

Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione della spesa pubblica o obbligo di pareggio di bilancio.

Proprio com’è più di recente avvenuto, e sta avvenendo, alla Grecia e ad altri membri dell’Unione, veniva in quel modo messa in discussione la sovranità dei singoli Paesi, obbligati ad aprirsi agli investimenti delle multinazionali e alle loro delocalizzazioni produttive, finalizzate allo sfruttamento di manodopera a basso costo e alla massimizzazione dei profitti. In parallelo e di conseguenza, i diritti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche i diritti umani, venivano vulnerati o fortemente ridimensionati, prima in quelle aree geografiche e, successivamente e tuttora, anche in Europa. Dove portasse quella strada divenne presto manifesto con il default dell’Argentina nel 2001.

A cavallo del cambio di secolo e in reazione a quelle dinamiche, e alle strategie sottostanti, prendeva corpo, forma e forza il grande movimento altermondialista (comunemente mistificato dai media mainstream sotto l’etichetta “no global”), nato nel 1998 e decollato l’anno successivo con le mobilitazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) a Seattle.

Si trattò di una prima battaglia vincente, che ha piegato sino a renderla irrilevante la potentissima organizzazione sorta nel 1995 con l’obiettivo di abbattere ogni barriera tariffaria al commercio globale di merci e servizi. Un piccolo, micidiale, cuneo era stato ficcato negli ingranaggi della globalizzazione economico-finanziaria e della liberalizzazione commerciale, dunque nel potere e nei profitti delle grandi corporation. Un intollerabile inceppamento di una strategia da tempo lucidamente tesa a un nuovo ordine globale, dopo che quello bipolare precedente, stabilizzato dalla Guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi, era venuto meno, franando su sé stesso. Un ordine spesso tragico, ma anche in alcuni tratti caratterizzato da rivoluzioni emancipative di popoli schiacciati dal colonialismo e da sistemi economici disumani, nonché, nella seconda metà del secolo, pure in Occidente, da grandi conquiste sociali, da un forte progresso delle forze del lavoro e da un significativo avanzamento di istanze democratiche e di libertà civili.

 

La seconda potenza mondiale

Le vicende del luglio 2001 a Genova sono state la sanguinosa dimostrazione di come quel governo sovranazionale non possa tollerare interferenze e di come conservi memoria – lui sì – e timore dei processi di emancipazione, conquiste e progressi avvenuti nel secolo scorso. In quelle giornate genovesi si sono confrontate senza mediazioni due visioni del mondo. È in quel momento che le ragioni della forza iniziano a prevalere sulla forza della ragione: una “macelleria messicana” a esecuzione italiana e regia internazionale, una inequivocabile manifestazione dell’avvenuto – e costitutivo – divorzio tra democrazia e processi di globalizzazione, con gli orrori di Bolzaneto, le torture alla scuola Diaz e l’evidenza di apparati di polizia intrisi di cultura fascista e di omertà mafiosa, come hanno ben riscostruito una delle figure italiane più rappresentative di quel movimento e una delle vittime dei massacri (Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, L’eclisse della democrazia – Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, Feltrinelli, 2011).

Tuttavia, ancora due anni dopo quel composito movimento globale dimostra una vitalità e dimensione sorprendenti: il 15 febbraio 2003 in ogni angolo del pianeta, contemporaneamente, si manifesta “Contro la guerra, senza se e senza ma”. Centodieci milioni di persone, un evento unico da sempre. Il giorno successivo il “New York Times” definisce quel movimento «la seconda potenza mondiale».

Quel movimento non esiste più, quanto meno nelle forme e forze di allora, pur se esistono encomiabili tentativi di tenerne in vita almeno intuizioni e tensioni con il World Social Forum, nell’agosto 2016 convocato a Vancouver.

Del “movimento dei movimenti” non si ricorda né l’origine, né la fine: nel quindicennale dell’uccisione di Carlo Giuliani solo una piccola e orgogliosa pattuglia di giovani ed ex giovani ha voluto ritrovarsi con i genitori di Carlo in quella piazza Alimonda, alcuni con ancora sul corpo le cicatrici di quei giorni di infamia istituzionale.

Se la seconda potenza mondiale si è frammentata, ammutolita e sin quasi dissolta, le sue ragioni sono più che mai attuali ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società che ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld e le scelte criminali e complicità dei Tony Blair.

Oggi è il Rapporto Chilcot che documenta quanto quelle scelte interessate e scellerate abbiano devastato e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Ci sono voluti sette anni e decine di milioni di sterline per portare a termine l’inchiesta commissionata nel 2009 dal governo britannico a una Commissione guidata da sir John Chilcot e tradotta in un Rapporto sviluppato in ben 12 volumi, ufficializzando quel che il movimento, e quel po’ di giornalismo indipendente che ancora faticosamente sopravvive, denunciava a chiare lettere e ad alta voce da subito, ovvero la volontà preordinata e rapace di dare il via a un intervento militare ingiustificato e capzioso.

 

La destabilizzazione del mondo e gli interessi delle corporation

Nel frattempo, la guerra di Bush e Blair ha prodotto, solo in Iraq, oltre un quarto di milione di morti, destabilizzando a catena tutta l’area, sino alla guerra siriana, divenuta, oltre che un mattatoio e un deserto di rovine, la causa principale delle ondate migratorie che, a loro volta, stanno contribuendo a destabilizzare la già fragile Unione dell’Europa.

Allo stesso modo e su un altro piano, solo apparentemente meno cruento e disastroso, gli avvenimenti mondiali, con la crisi scoppiata nel 2007, hanno dimostrato la fondatezza dell’analisi di quel movimento e, all’inverso, il fallimento di una globalizzazione fondata sulla libertà assoluta delle corporation e della grande finanza. Così come gli studi scientifici registrano con evidenza crescente quanto fossero centrati e realistici gli allarmi sul degrado del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui loro drammatici effetti, già presenti e futuri.

Insomma, quel movimento diceva e spiegava che i grandi mali che stanno deteriorando le condizioni di vita e compromettendo il futuro sono tutti intrecciati tra loro: diseguaglianze, guerre, migrazioni, olocausto ambientale, diritti umani. Verità confermate dai fatti nel quindicennio successivo, ma ancora negate e avversate. Prenderne atto, infatti, comporterebbe il mettere radicalmente in discussione il sistema e l’attuale modello, in ogni sua articolazione.

Così come il trauma dell’11 settembre 2001 non ha portato a resipiscenze, ma anzi è stato strumentalizzato per destabilizzare il mondo e per annichilire quel movimento antisistema che voleva cambiare il mondo senza prendere il potere, così la crisi economica in corso dal 2007 invece di portare a un drastico ridimensionamento del potere della finanza speculativa che l’ha provocata, sta traducendosi in un’accelerazione dei processi tecnocratici, da un lato, e populistici, dall’altro, che stanno modificando in radice in senso autoritario e antidemocratico le istituzioni rappresentative, a partire dal quadro europeo.

«L’ultimo quarto di secolo ha segnato il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, divinità inique di una società ingiusta. Poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti dei governi nazionali, fuori da qualsiasi controllo che abbia una parvenza di democrazia. Totem intoccabili e vendicativi davanti a i quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America […] il paradosso delle nostre democrazie: stanno entrando una dopo l’altra in crisi attraverso l’esercizio più democratico che vi possa essere, il voto popolare. È già accaduto con il referendum britannico, può accadere negli Stati Uniti di Trump, è in incubazione nella Francia di Marine Le Pen. Altro che sistemi elettorali e riforme costituzionali, intorno a cui ci arrabattiamo noi italiani» (Luigi Vicinanza, Quando le religioni si sostituiscono alla politica, “L’Espresso”, 28 luglio 2016).

A distanza di qualche lustro, insomma, nell’epoca del dominio incontrollato della finanza e per colpa dei suoi effetti, il mondo e l’Europa sono scossi e messi a rischio dal ritorno delle piccole patrie e delle frontiere blindate, dai populismi contagiosi e avvelenati di una democrazia che si autoerode. Mentre in alto il capitalismo diventa sempre più globale e imperiale, in basso lo spaesamento diventa arroccamento identitario e perimetrazione egoistica.

Sotto l’urto dell’austerity, della crisi, delle guerre, dei flussi dei profughi, la risposta politica alla crisi – peraltro vistosamente strutturale -, mutatis mutandis, avviene a destra, per usare categorie del Novecento, forse troppo frettolosamente archiviate. Non un’uscita dalle catene della globalizzazione liberista nel segno dei diritti dei più deboli e della giustizia sociale, ma in quello dei recinti e del diritto del più forte, del rancore dell’ex ceto medio impoverito.

Le forze politiche che più cavalcano i risentimenti verso l’Europa delle banche, ottenendo crescenti e preoccupanti consensi in diversi Paesi, a partire dalla Francia, non sono però l’alternativa a quel sistema, ne costituiscono piuttosto una variante e uno strumento. Un «violento declino della democrazia», che non riguarda solo l’Europa, come ha ricordato Noam Chomsky a proposito della campagna elettorale di Donald Trump, che ha fatto emergere negli USA «situazioni analoghe a quelle del nord Europa con episodi di xenofobia, rabbia, paura: la popolazione bianca, che ha una forte tradizione di supremazia bianca, è attraversata però da un inquietante e nuovo fenomeno demografico: c’è un aumento del tasso di mortalità tra i maschi bianchi della classe lavoratrice (35-55 anni) e questo non era mai accaduto in un paese sviluppato e non in guerra» (Chomsky: «Vergognosa l’Europa su Siria e Turchia», intervista a cura di Virginia Tonfoni, “il manifesto”, 15 settembre 2016).

Ecco: la paura è una delle chiavi indispensabili per decifrare e comprendere come e perché i ceti e le persone colpite dalla crisi siano vittime di quello strabismo che si traduce nella più classica delle guerre tra poveri, o meglio tra gli ultimi e i penultimi della fila.

 

Crisi di sistema

La “lotta di classe dall’alto” in pochi decenni ha cambiato il mondo, non solo i rapporti di forza a favore dei ceti dominanti. Sotto alcuni aspetti quei cambiamenti non sembrano reversibili. Vero è che la crisi è di sistema, lo scriviamo e documentiamo da tempo. Eppure non appare messo in discussione il mantra sulla crescita, anche se ormai essa si gioca su percentuali risibili, né la contradditoria religione dell’austerità, che ha prodotto e sta producendo guasti economici e devastazioni sociali.

L’approfondirsi delle diseguaglianze, la proliferazione delle guerre (calde e fredde), il correlato esodo di intere popolazioni, la progressiva catastrofe ambientale sono altrettanti capitoli di questa crisi strutturale. Risvolti di essa, in Europa ma non solo, sono lo vuotamento dei processi e degli istituti democratici, con il rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo e riforme elettorali mirate a rendere controllabile e comunque ininfluente i Parlamenti; la sterilizzazione del welfare state; la manomissione delle Costituzioni antifasciste nate nel secolo scorso; la messa in mora dei sindacati e le radicali (contro)riforme del lavoro (cui è dedicato il nostro Focus del primo capitolo, che analizza quelle intervenute o in corso in Italia, Francia e Belgio), con massime libertà per le imprese, a partire da quella di licenziare; l’ulteriore restrizione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione.

Alcune di queste misure erano state richieste all’Italia dalla Commissione Europea nella famosa lettera del 2011, altre sono state indicate dalla potente JP Morgan. Ma prima di loro erano state immaginate e strutturate in un vero e proprio programma di governo (il Piano di rinascita democratica) dalla massoneria di Licio Gelli. Che citiamo non per agitare vecchi e consunti spauracchi, ma per evidenziare quanto la strategia di restaurazione globale di un nuovo ordine autoritario e delle ragioni primarie e assolute del profitto di impresa, dopo le conquiste democratiche, sociali e sindacali degli anni Sessanta e Settanta, fosse in campo da tempo, ovvero dagli anni Ottanta del secolo scorso. Allorché la crisi di sovrapproduzione e la contemporanea discesa vertiginosa del saggio di profitto evidenziava la debolezza e arretratezza, politica e progettuale oltre che economica, della grande impresa; tra il 1970 e il 1980, negli USA come in Europa, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito era stata di circa 5,5 punti percentuali.

Secondo lo storico Ignazio Masulli (Chi ha cambiato il mondo? La ristrutturazione tardocapitalista, 1970-2012, Laterza, 2014), quella situazione mise i poteri economici transnazionali di fronte a un bivio: o innovare sistemi di produzione, di relazioni industriali, di organizzazione del lavoro e ridisegnare complessivamente il patto sociale, attraverso adeguati investimenti e un nuovo e più avanzato compromesso capitale-lavoro, oppure cercare scorciatoie che riguadagnassero nell’immediato margini maggiori di potere e di profitti. La strada scelta fu questa seconda, attraverso: le delocalizzazioni produttive in aree periferiche, dove conflitti, diritti e salari potessero essere facilmente compressi e i vincoli fiscali e ambientali elusi; un grande impulso all’automazione, grazie alla microelettronica; la tendenziale deindustrializzazione con il parallelo spostamento degli investimenti nel campo finanziario. Contemporaneamente, nei Paesi industrializzati veniva portato avanti un imponente ridimensionamento dei diritti e dei salari dei lavoratori, conquistati nel ciclo precedente.

* Curatore del Rapporto

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