LA CRIMINALIZZAZIONE DELLA POVERTÀ

LA CRIMINALIZZAZIONE DELLA POVERTÀ

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Secondo le statistiche di Eurostat – elaborate nel 2015 su dati 2013 – nella EU28 ci sono 122,6 milioni di persone a rischio povertà ed esclusione, pari al 24,5% dell’intera popolazione: all’esordio della grande crisi erano 116 milioni, il 23,8%. Alcuni Stati membri hanno percentuali che vanno oltre un terzo della popolazione, come Bulgaria (48%), Romania (40,4%), Grecia (35,7%), Ungheria (33,5%); a fronte di percentuali tra il 15% e il 16% di Paesi come Svezia, Finlandia, Olanda e Repubblica Ceca. L’Italia registra il 28,4%, dato ben superiore alla media EU28, per un totale di 17 milioni e 330 mila persone (Eurostat, 2015 a).

Mentre crescono, anche vistosamente, le cifre e i volti (ad esempio i working poors) delle povertà, si intensifica il processo di criminalizzazione dei più poveri, che sta andando avanti in modo deciso in tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo delle città, mediatico.

Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione, promosso dalla CGIL, nel suo volume del 2015, il 13°, contiene come sempre un capitolo dedicato al tema delle politiche sociali, curato da Susanna Ronconi. Il Focus del capitolo nel 2015  è dedicato appunto alla criminalizzazione delle povertà.

Ne proponiamo qui un estratto.

Qui  scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse

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La progressiva estinzione del modello sociale europeo

Le crisi sono un modo di governare passaggi cruciali, mettendo a regime ciò che in prima battuta è rappresentato come emergenza. Così, la crisi economico-finanziaria cominciata nel 2007 si è inserita in Europa come accelerazione e forma di governo di un processo in atto da tempo: quello dello smantellamento liberista del cosiddetto modello europeo, la cui virtù stava nel non contrapporre Welfare State a sviluppo, inclusione a crescita, lotta alla povertà a competitività, e anzi puntava a farne un circolo virtuoso. Un modello che ha avuto una lunga e a tratti felice vita in ambito nazionale, almeno fino agli anni Ottanta, e soprattutto in alcuni dei Paesi europei, ma assai breve e stentata sotto l’egida dell’Unione Europea e dell’euro. Non è sempre facile datare puntualmente le svolte, quando i processi sono complessi, ma si può ben dire che dalla stessa emanazione della Strategia di Lisbona del 2000, in cui si dichiarava l’obiettivo coerente di inclusione e crescita, è cominciato il declino di questo circolo virtuoso, via via snaturato dal predominio delle compatibilità economiche e finanziarie (dei bilanci, della stabilità, dei pareggi) e dal potere crescente dei mercati finanziari sugli Stati nazionali e nella governance comunitaria.

Ficcato a forza (quanti cittadini europei hanno potuto saperne, discuterne, incidere sul voto in Parlamento?) il pareggio di bilancio nelle Costituzioni, equiparato a una testa un voto, al diritto alla salute o all’intangibile dignità della persona, diventata la sottile opacità amministrativa della governance europea lettera costituzionale, il vecchio modello europeo non ha avuto più futuro, e ha cominciato la sua lenta e progressiva estinzione. Questo nonostante ancora dentro la crisi, malato ma vivo, giocasse le sue carte, se è vero che – come molti sostengono – a oggi gli esiti della crisi del terzo millennio sono stati socialmente meno drammatici di quelli della crisi del 1929 proprio grazie ai sistemi di welfare creati nel secondo dopoguerra.

 

La crescita del controllo penale delle povertà

Di criminalizzazione (e incarcerazione) delle povertà si parla da almeno due decenni. Le analisi di Loïc Wacquant sulla ipercarcerazione delle classi povere e nere negli USA hanno ampiamente descritto il fenomeno, ancorandolo, da un lato, alla variabile razziale e, dall’altro, al declino del fordismo, a una montante e pervasiva precarizzazione delle classi povere e operaie e alle nuove discipline del lavoro flessibile e senza garanzie (Wacquant, 2006 e 2013).

È più recente, invece, l’evidenza di questa tendenza in Europa, dove il modello sociale europeo ha a lungo rappresentato se stesso, in opposizione al modello statunitense, come capace di un patto in grado di dare risposte sociali e non penali alle classi povere. Ora, rinsecchito il paracadute del welfare, povertà e diseguaglianze in crescita, coesione sociale deprivata dei dispositivi negoziali e dei patti sociali cui il Welfare State ha provveduto, nel bene e nel male, la dinamica meno Stato sociale, più Stato penale ha preso vigore, aggravata dagli esiti della crisi. Già la vecchia Europa aveva preso a rincorrere gli States di fronte al fenomeno delle migrazioni: quando ha fatto irruzione l’altro, il non-cittadino (la non-persona, per dirla con Wacquant), fuori dal patto e dai dispositivi dello Stato sociale tra i cittadini europei, il governo dell’emergenza, il diritto del nemico, ha a sua volta fatto irruzione nella democratica Europa, cominciando dai più fragili, i migranti, proprio così come negli USA da sempre accade alla comunità nera. Con la crisi e le sue accelerazioni politiche, il venir meno del modello di welfare inclusivo ha cominciato via via ad allargare la platea dei soggetti svantaggiati, poveri o emarginati, o comunque altri, destinatari di controllo, penale o amministrativo, ma comunque sanzionatorio e deprivante, includendo in primo luogo le povertà estreme.

Parlare di penalizzazione e criminalizzazione delle povertà, allora, significa non tanto o non solo individuare pochi e ristretti gruppi sociali repressi e oppressi – ciò che pure, di per sé, è materia di denuncia sociale e auspicabile conflitto – ma soprattutto individuare una tendenza, sapendo che, se non si inverte la rotta, è destinata ad allargare la propria platea.

Il ritorno delle classi pericolose, insomma, non è da prendersi alla leggera come qualcosa di residuale, o nicchia per poveri estremi, o prassi da Stati dalla debole o recente costituzione democratica, ma va visto nella sua rischiosa portata di trend, e di trend europeo, funzionale e organico alla perdita delle possibilità di governo dolce fino a ieri offerte dal Welfare State. Come i muri eretti contro i migranti sono solo apparentemente un’ingenuità rozza e violenta, e in realtà sono emblematici e del tutto coerenti con la politica della “Fortezza Europa”, così penalizzare e criminalizzare le povertà più estreme e più recenti assume la portata di una tendenza allo Stato penale maturata dentro l’accelerazione della crisi.

La rete European Federation of National Organizations working with the Homeless (FEANTSA) afferma che «Stato sociale e giustizia criminale sono due facce della politica pubblica sulle povertà, e devono essere analizzate – e riformate – insieme» (FEANTSA, Housing Rights Watch, 2013 a). Oggi, il circolo è vizioso: meno Stato sociale e più Stato penale, e, ciò che è peggio, misconosciuto e taciuto, nascosto nelle pieghe dell’invisibilità dei più deprivati.



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