G7 di Taormina, navigazione a vista e senza sonar

Immaginate una flotta potentemente attrezzata, scesa in mare ma senza sapere dove andare, mentre la nave ammiraglia è guidata da un incapace ma pronto a tutto che guarda con stizza e conflitto le navi che la seguono – in assenza di equipaggi e navi decisive non invitate – mentre tutto il naviglio non è proprio in sintonia e ognuno prepara uno scontro intestino sul porto di destinazione e sul carico da portare.
Potrebbe essere questa la plastica descrizione del G7 che si è concluso ieri a Taormina. Una navigazione, quella dei Sette grandi della terra, a vista e senza sonar.
Non è poco per chi si autoproclama a guida dei destini economici e politici della terra. Per la quale l’accordo sul clima di Parigi, faticosamente raggiunto nel 2016, resta sospeso.
L’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati uniti ripropone la centralità del petrolio e del legame strategico con l’Arabia saudita – del resto condiviso anche dagli altri leader occidentali – e con esso la distruzione di ogni presidio ecologico, perché considerati nemici del primato e del lavoro americani (senza farsi mancare, su questo come su altri fronti, il duro scontro con papa Bergoglio).
Tema che vede un americanissimo presidente Usa perfino proclamarsi difensore degli interessi commerciali dell’Unione europea, insidiata dalla «cattiveria» e centralità della Germania. Siamo, per chi non l’avesse capito, all’avvio di una pericolosa stagione di guerre commerciali.
Sui migranti in fuga dalle miserie di questo modello di sviluppo e dalle guerre spesso e volentieri provocate dall’Occidente, la decisione finale conferma le intenzioni dei governi europei – non è tutta colpa del cattivo Trump – che vede nel’epopea dei rifugiati solo un pericolo e un problema, optando per muri e fili spinati, perché vanno difesi «i diritti sovrani degli Stati a controllare i propri confini e a fissare limiti chiari».
Insomma chi ha chiuso le frontiere ha fatto bene, ora vanno fissati livelli alle migrazioni. Normalizzando, come dimostra l’inchiesta sulle «Ong» troppo «intraprendenti», l’accoglienza dei disperati. Coinvolgendo gli Stati di partenza, a prescindere dai diritti umani: l’Egitto di al-Sisi, la turbolenta Tunisia, la tragica Libia. Preparando per fermarli campi di concentramento nel sud del Sahara, in Niger e Ciad.
La flotta occidentale, da Taormina in poi, ha preso il largo. Verso dove non lo sappiamo. Quel che è peggio senza radar e sonar. Perché sarebbe bastato ai Sette grandi tendere solo l’orecchio verso l’altra parte del mare Mediterraneo, per ascoltare la eco della battaglia in corso a Tripoli da giorni – dove il «nostro» Serraji, l’interlocutore dell’emergente Minniti, è allo sbaraglio; per sentire il fragore dei raid aerei, turchi, americani e russi che si contendono le spoglie della Siria; per udire il crepitio del conflitto iracheno dove ogni giorno è una strage di civili e dove si propaga lo scontro sunniti-sciiti.
La flotta del G7 ha rimosso la guerra e le responsabilità occidentali della guerra mediorientale. Anzi, con la nuova centralità attribuita all’Arabia saudita schierata contro l’Iran, la guerra deve continuare ed approfondirsi.
Ora il vertice che si è chiuso sembra sollecito solo a respingere la barbarie del terrorismo dell’Isis che, ormai quotidianamente, colpisce al cuore l’Europa facendo, come a Manchester, scempio di persone innocenti.
È un G7 quasi paradossalmente tenuto unito solo da questa scia di sangue del qaedismo e dello jihadismo dello Stato islamico alle corde a Raqqa e Mosul. Ma non finito o sconfitto. Perché asimmetricamente, della guerra si è alimentato e si alimenta.
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