L’industria di guerra ha fretta, per il governo il bellico è essenziale

L’industria di guerra ha fretta, per il governo il bellico è essenziale

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Tanti accordi per riaprire in sicurezza. Che stridono con chi incredibilmente non si è mai fermata: l’industria di guerra. Essenziale, evidentemente, per il governo e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Ieri si è saputo dei 337 milioni spesi per 15 nuovi elicotteri. La denuncia arriva da Rifondazione comunista. «Nemmeno in tempo di pandemia globale, crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti il delirio bellicista si interrompe: oltre alla produzione degli F35, si aggiunge la conferma dell’acquisto di 15 elicotteri da guerra AW-169M marchiati Leonardo – denunciano il segretario Maurizio Acerbo e il responsabile per la pace Gregorio Piccin – . Una commessa, al momento, da 337 milioni di euro, ossia poco meno dei 400 milioni che il governo ha stanziato per i comuni in piena emergenza sociale», concludono Acerbo e Piccin.

Una forzatura, quella di Leonardo nello stabimento di Cameri (Novara), che va di pari passo con le oltre 70mila deroghe richieste da imprese medie e piccole ai prefetti con una stima di circa 65mila aziende riaperte senza formale permesso, sfruttando il silenzio-assenso dovuto al fatto che i prefetti stessi non riescono ad esaminare le domande e a chiedere il parere dei sindacati, previsto nel Protocollo nazionale.
Nelle grandi aziende invece la pace sociale sembra mantenersi. Tanti gli accordi sindacati-azienda per essere pronti a ripartire con le produzioni mettendo la sicurezza dei lavoratori al centro. L’elenco è lungo: da Fca alla consorella Cnhi, da Leonardo a Whirlpool, da Electrolux a Hitachi. Tutti accordi unitari con il rispetto del Protocollo nazionale rafforzato ulteriormente,
La prima fabbrica Fca a ripartire sarà la Sevel di Atessa, dove si produce il furgone Ducato con oltre 6mila dipendenti. Qui il sindacato ha già verificato l’applicazione del distanziamento delle postazioni previste dall’accordo, la velocità della linea è stata ridotta del 30%, sono stati aggiunti 45 minuti a disposizione per il tempo totale delle pause e in mensa, dove sono state ridotte le postazioni. La data prevista per riaprire è il 27 aprile ma potrebbe essere perfino accelerata se il governo desse prima il via libera.
Le cose vanno peggio a Fincantieri. Il colosso pubblico aveva iniziato la pandemia decidendo di chiudere i tanti stabilimenti disseminati lungo la penisola mettendo in ferie i dipendenti. Poi, sotto la pressione dei sindacati, la retromarcia con la trasformazione in cassa integrazione. Venerdì è stato sottoscritto un accordo nazionale che proroga la Cig «emergenza Covid-19» fino al 3 maggio. Ma allo stesso tempo Fincantieri – 7.800 dipendenti diretti, circa 26mila da ditte esterne in Italia – ha comunicato la decisione aziendale, «presa al di fuori di ogni condivisione sindacale», di ripartire parzialmente nei cantieri e nelle sedi, a partire dal 20 aprile, con «modalità progressive».
Una posizione contestata dalla Fiom. «I confronti avvenuti in ogni sito e sede non sono stati sufficienti per condivide modalità, tempi e numeri per la ripartenza – spiega il sindacato in una nota – . Non sono stati condivisi gli specifici protocolli operativi né è stata discussa nel dettaglio l’effettiva attuazione delle misure, tanto meno sono state coinvolte le aziende sanitarie per le verifiche del caso».
La Fiom quindi ora minaccia lo sciopero. «Se lunedì si dovessero registrare forzature nei siti da parte di Fincantieri o situazioni di rischio, la Fiom metterà in atto tutte le opportune azioni per la tutela della salute dei lavoratori».

* Fonte: Massimo Franchi, il manifesto



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