Quelle in carcere non sono vite a perdere

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Anche io ho firmato l’appello di Diritti Globali perché sia fatta chiarezza sulle 13 morti avvenute all’indomani delle proteste nelle carceri. Trovo inaccettabile che avvenimenti così gravi – le morti di Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan – siano liquidati con espressioni del tipo «l’ipotesi più plausibile è…», «i decessi sembrano per lo più riconducibili a…» pronunciate senza alcun rispetto delle regole e della trasparenza, con atteggiamenti che sono tipici di un regime autoritario e non di uno stato di diritto e in totale disprezzo di quelle stesse vite, quasi fossero vite minori, vite di scarto in contrapposizione a vite più degne.

Ho firmato l’appello perché l’ho ritenuto un mio dovere in quanto opero nelle carceri come volontario per costruire percorsi di uscita da una struttura che ritengo essere sbagliata nelle sue fondamenta. Soprattutto l’ho sentito un dovere nei confronti dei tanti detenuti che in oltre dieci anni ho conosciuto personalmente, direttamente e senza filtri. Persone, prima che detenuti, con le quali ho messo in piedi negli Istituti di Chieti e Pescara, e inizialmente anche in quelli di Vasto e Lanciano, una redazione giornalistica, un giornale, una compagnia di teatro, un laboratorio di grafica e di digitalizzazione, una sartoria, un bar e altro ancora, per provare a modificare dall’interno – e quindi da altri punti di vista – la realtà del carcere che fissa e incatena le persone al passato, al cliché del criminale propinato in modo superficiale da certo cinema, certa stampa e tanti format televisivi.

Stereotipi e luoghi comuni che sono stati rimessi in circolo proprio in occasione delle rivolte avvenute tra l’8 e il 9 marzo («erano drogati, volevano scappare, dietro c’è la mafia») per coprire ancora una volta quello che stava avvenendo nelle carceri: la paura, la mancanza di informazioni, la sofferenza, il disagio sociale, le contraddizioni, anche la protesta di chi non ha voce e non viene ascoltato.

Tutto questo per nascondere quello che si fa fatica ad ammettere e riconoscere, ovvero l’anima del carcere, la sua essenza: sebbene sulla carta si parli di risocializzazione (basta pensare alla Riforma O.P. del 75 e alla Legge Gozzini dell’86), nella realtà – specialmente oggi e in questo nostro sistema economico nel quale l’inclusione e il lavoro non sono più possibili per tutti – il carcere è unicamente una struttura che esclude concentrando e ammassando corpi di persone emarginate e che poi abbandona come rifiuti non riciclabili. Come se fossero niente altro che corpi di classe, soggetti preferiti da un penale totale, corpi che devono soffrire (perché altrimenti che pena sarebbe!), e che devono sottostare a codici che ripropongono un sistema in equilibrio grazie a premi e punizioni per la costruzione di un carcerato che “si faccia la galera”, di un agente che controlli e di un sistema che punisca. Un sistema, però, che alle volte scoppia: rivolte, violenze, aggressioni, suicidi e squadrette in azione appunto per punire più che sedare. Gli esempi sono moltissimi.

Come la punta di un iceberg ecco dunque che quelle 13 morti ci rivelano aspetti ben più complessi e radicati: non solo la fine del senso di umanità che deve essere garantito a tutti nessuno escluso, non solo il senso ( potremmo anche chiamarlo fallimento) della pena del carcere e del diritto penale, ma anche un cambiamento di paradigma: carcere e sistema penale da fabbriche normalizzatrici diventano zone di guerra dove coloro che sono considerati i nemici sono da combattere ed eliminare. Ed è questo infatti, soltanto questo, il significato di quei tanti e ripetuti “devono marcire in galera”. È questo il vero significato dei continui attacchi contro le sentenze ritenute-percepite troppo miti o contro le scarcerazioni delle persone malate o a rischio per il coronavirus. Vendetta e non umanità della pena. Ed è ancora questo, ad esempio, lo stravolgimento dell’articolo 30 dell’O.P. del ’75 in base al quale in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati poteva essere concesso dal magistrato di sorveglianza «il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo». Un provvedimento per permettere a tutti i detenuti di accompagnare i propri familiari in punto di morte, o di condividere il dolore con i parenti nell’ipotesi di decesso di un familiare. Ma erano altri tempi. Oggi invece i tempi sono altri, nessun posto per Antigone. Oggi, prima di concederlo, il magistrato di sorveglianza non deve acquisire semplicemente informazioni, ma addirittura deve ricevere il parere delle autorità di pubblica sicurezza – i quali sono il più delle volte negativi –, con il risultato che quell’articolo 30 di fatto è abrogato, come tante altre disposizioni che sono alla base dei diritti.

Tutti abrogati perché bisogna difendere la società, abrogati perché chi sbaglia deve pagare e deve quindi marcire in galera, abrogati perché la giustizia è tornata ad essere vendetta, unica vera stabilizzatrice del consenso alimentato da falsi e indotti bisogni sociali di sicurezza. Abrogati come il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, il diritto all’affettività, eccetera.

In definitiva, è per tutto questo che ho firmato l’appello per la verità per quelle 13 persone morte dopo le rivolte all’indomani delle proteste delle carceri. Ne ho scritto anche nell’ultimo numero della rivista Voci di dentro che ha per titolo “Noi siamo George Floyd”, dove quel noi siamo George Floyd è riferito ai milioni di Floyd del mondo. Ai carcerati abbandonati in celle malsane e senza speranza, ai tanti disuguali del mondo: neri, poveri, precari, migranti. Vite di scarto. La cui morte non è neppure degna di rispetto e di verità.

*Giornalista, presidente dell’Associazione Voci di dentro



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