Bolivia. Sabina Orellana, ministra delle Culture, racconta la sfida del potere indigeno

Bolivia. Sabina Orellana, ministra delle Culture, racconta la sfida del potere indigeno

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La cultura? «È fatta di aspetti tangibili e intangibili, va dal cibo al modo di produrre e si basa sui saperi che ci hanno permesso di resistere più di 500 anni»

Dopo la cacciata di Evo Morales il governo provvisorio rimasto in carica in Bolivia per un anno ha provato a riportare in sella l’egemonia bianca ed elitaria. Ma la Repubbilca di Bolivia, con le elezioni del 18 ottobre scorso, ha dato nuovamente la vittoria ai candidati del Mas. Continua così il suo cammino verso uno stato in cui i popoli originari impongono visioni e riscattano secoli di emarginazione e sfruttamento.

I due fattori di maggior simbolismo del nuovo governo, presieduto da Luis Arce Catacora, sono la carismatica vicepresidenza dell’aymara David Choquehuanca e il ministero delle Culture, decolonizzazione e depatriarcalizzazione affidato alla quechua Sabina Orellana, dirigente della confederazione di donne indigene intitolata alla memorabile dirigente Bartolina Sisa. Abbiamo raggiunto e intervistato proprio la protagonista di questa svolta storica.

Ministra Orellana, nella Cerimonia in cui Arce l’ha insediata lei ha sostenuto che le spese per la cultura non sono qualcosa di assurdo ma l’identità del popolo boliviano. Perché?

In Bolivia le spese per la cultura non sono assurde come sostenuto dal precedente governo, che aveva abolito il ministero: la nostra costituzione dice che siamo uno stato plurinazionale e che sono riconosciute tutte le culture del paese, composte da 36 popoli che sono la nostra ricchezza. Siamo l’insieme di quechua, aymara, guaranì e altri popoli e dobbiamo finalmente recuperare i saperi ancestrali di cui siamo portatori. La cultura è fatta di aspetti tangibili e intangibili, va dal cibo al modo di produrre e si basa sui saperi che ci hanno permesso di resistere più di 500 anni. Vogliamo così raccontare il riscatto e la dignità dei nostri popoli.

Il suo ministero si occupa anche di decolonizzazione e depatriarcalizzazione ed è presieduto da una donna fieramente indigena. Cosa significa questo?

Il primo elemento simbolico di grande importanza risiede nel fatto che come indigeni è finalmente arrivato il momento storico in cui ci autogoverniamo. E vogliamo realizzare cose che abbiamo anelato per anni. Poi, se per fare questo è stata scelta una rappresentante delle donne, significa che crediamo nel loro protagonismo.

Usate la parola decolonizzazione in ambito istituzionale. Quanto è importante per la Bolivia utilizzare questa categoria politica e culturale?

Sarebbe un errore negare la colonizzazione. Riconosciamo, come priorità di governo, ma anche a livello costituzionale, che esiste in diverse forme. Che si insinua nella vita comune e si intreccia con modalità gerarchiche e patriarcali che vogliamo superare. Per esempio con l’idea che le donne non debbano occuparsi di politica, che il loro ruolo è relegato alla cura dei bambini, della cucina e dello sposo. Sulla decolonizzazione, i nostri leader storici, la nonna Bartolina Sisa e il nonno Túpac Catari, ci avevano indicato che il predominio è organico, ed è un insieme di sopraffazione politica, economica e sociale. Dobbiamo ribaltare questo iniziando dal quotidiano e dall’apparato statale.

Alla decolonizzazione è giusto accostare i concetti di sfruttamento e di sovranità, perduta e da riconquistare. In quali settori pensate sia prioritario farlo?

Nel passato la nostra sovranità non è stata rispettata dai paesi più potenti che hanno sviluppato il capitalismo mondiale. Per questo i nostri leader hanno una attitudine antiimperialista e anticapitalista. Da qualche anno il mondo inizia a rispettarci. Oggi dobbiamo partire dalla riaquisizione di sovranità. A partire dal cibo spazzatura che ci è stato imposto. Poi nella produzione agricola con l’assalto dei transgenici che stiamo contrastando con la creazione di un registro di semi ancestrali, iniziando da patate e grani.

E con il litio?

Con il litio la questione è semplice: quello che si trova in Bolivia è dei boliviani. La nostra sfida è di riuscire a controllarlo, come materia prima ma dandogli anche un valore aggiunto. Anche questa capacità di lavorare i prodotti significa avere sovranità. E vale per tutte le nostre risorse.

Lei ha nominato Bartolina Sisa, che lottò contro i colonizzatori e fu uccisa il 5 settembre del 1782. A lei è intitolata l’importante gruppo di donne di cui lei è dirigente. Vuole spiegarci che importanza ha a tutt’oggi il suo esempio?

Per noi la lotta di Bartolina per i diritti dei popoli originari, fino al sacrificio della vita, rappresenta molto. Si batté per recuperare la dignità di gente scacciata dalla sua terra; per la Pachamama, la madre terra, il nostro saper parlare con i fiumi e con le montagne. Bartolina ci ha insegnato ad avere pensiero e azione politica, cosa che gli spagnoli ci avevano proibito, trattandoci da schiavi. Grazie alla forza che la nonna Bartolina ha saputo trasmetterci, la Confederazione oggi ha una struttura nazionale e un sindacato. La nostra pollera o la sciarpa azzurra, sono riconosciute da tutti i popoli andini. Era capace di tessere rapporti con leader di altre regioni e sognare la patria grande del continente. Sono orgogliosa che stiamo realizzando alcune delle sue idee. Il compito di ribaltare quanto fatto dai governi prima del 2005 è difficile, ma sapremo farcela, lo dimostreremo. Con la nonna Bartolina nell’anima e nel cuore.

Con il processo politico iniziato da Morales, la capacità di interlocuzione con l’Europa non ha avuto strada facile, ma è andata meglio con papa Francesco, che ha visitato la Bolivia nel 2015, ha ricevuto Evo e appoggia i movimenti. Il governo Arce pensa di poter collaborare con la sua politica internazionale?

Il papa attuale è un fratello di questa terra e soprattutto, a mio parere, il primo pontefice rivoluzionario. Per questo lo rispettiamo molto e chiediamo a dio che lo accompagni in tutte le sue attività. La nostra sintonia con le sue iniziative va dentro il tema della interculturalità, alla quale noi crediamo profondamente, perché le culture si complementano e si arricchiscono.

* Fonte: Gianni Tarquini, il manifesto



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