Da Bush sr. a Joe Biden: il Golfo e gli interessi vitali degli Stati Uniti

Da Bush sr. a Joe Biden: il Golfo e gli interessi vitali degli Stati Uniti

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Lo speciale di oggi de il manifesto ci racconta come il mondo cambiò il 17 gennaio 1991. Accadde con queste parole della Cnn trasmesse dall’Hotel Rashid: «Something is happening outside… the skies over Bagdad have been illuminated». «Qualche cosa sta accadendo là fuori, i cieli sopra Baghdad si sono illuminati». E c’era anche per il manifesto l’inviato Stefano Chiarini. Trent’anni – tanti ne sono passati – sono un’era geologica per qualunque professione, per il giornalismo in particolare, ma quello che accadde allora si riflette ancora sotto i nostri occhi e guida le nostre azioni e reazioni.

Negli anni Ottanta quando scrivevo un articolo dal Medio Oriente mi sembrava di informare il mondo. Non c’erano «dirette» tv: spesso raccontavo fatti accaduti giorni o settimane prima. Poi per l’informazione è cambiato tutto: con la cronaca della Cnn per la prima volta il mondo viveva un conflitto in diretta. Il giorno dopo i raid, i nostri reportage dal campo non potevano più essere cronaca pura ma anche spiegazione degli eventi. In realtà quel conflitto era cominciato molto prima ed è destinato a durare ancora oggi, come fosse un’unica guerra dichiarata a interi popoli e nazioni.

Alla base di ogni evento mediorientale c’è un principio: «Il tentativo di ogni forza esterna di controllare la regione del Golfo sarà considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti». È la Dottrina Carter, pronunciata nel 1980. Nel 1979 la caduta dello Shah in Iran, l’ascesa di Khomeini e l’invasione sovietica dell’Afghanistan erano stati per gli Stati uniti eventi gestibili e persino favorevoli: un Iran islamico che faceva fuori i comunisti iraniani rappresentava una barriera alla penetrazione sovietica e il sostegno americano al Jihad dei mujaheddin in Afghanistan «aveva risucchiato i russi in un palude alla vietnamita», come disse Brzezinzki, consigliere alla sicurezza nazionale di Carter.

L’attacco di Saddam Hussein nel settembre 1980 all’Iran rientrava in questa strategia: fare in modo che nessuno potesse diventare mai padrone del Golfo a spese degli Usa e dei loro sottoposti, le monarchie arabe. La guerra del ’91 ha origine nel conflitto precedente che aveva fatto un milione di morti senza cambiare di un centimetro i confini dello Shatt el Arab.

Alla fine della guerra, nell’88, Teheran, sotto sanzioni, aveva gli scaffali vuoti ma un debito estero di soli 7 miliardi di dollari, a Baghdad avevano riaperto i casinò e si festeggiava ma l’Iraq, beniamino dell’Occidente, con un popolazione di un terzo rispetto al nemico Iran, aveva un debito di circa 90 miliardi di dollari, erogati per metà dalle monarchie del Golfo, per acquistare armi europee, russe, cinesi. Saddam era strangolato dai debiti (otto volte il reddito annuo) che non avrebbe mai potuto ripagare se non accettando un controllo esterno sull’economia con limitazioni pesanti al suo potere.

Saddam considerava questi debiti una sorta di contributo a fondo perduto per un conflitto sostenuto anche per conto terzi contro l’ascesa della Mezzaluna sciita, che come si vede anche in questi giorni è il principale obiettivo del Patto di Abramo voluto da Trump – insieme ad Israele ed Arabia saudita – e delle sanzioni contro gli alleati di Teheran, che pure nel Golfo è attore ineludibile. Quando nel 1990 gli stati creditori come Kuwait ed Emirati aumentarono la produzione di greggio per tenere bassi i prezzi, Saddam lo considerò un insulto al suo ruolo di difensore del mondo arabo e le interferenze sulla gestione economica dell’Iraq vennero ritenute da Baghdad un atto ostile. C’erano le premesse perché tentasse nuove avventure come accadde con l’invasione del Kuwait del 2 agosto 1990.

La guerra del 2003 – dopo 12 anni di sanzioni devastanti sulla popolazione irachena – condotta dagli americani con la giustificazione di armi di distruzione di massa mai trovate, doveva essere l’atto finale della guerra del 1991 aprendo un altro capitolo della disgregazione mediorientale alla quale oggi si tende a mettere fine ponendo il Golfo sotto la tutela securitaria di Israele.

Rispetto al 1991 nel quadro c’è un ritorno sulla scena e un nuovo avversario, che non è il jihadismo, sfruttato dagli Usa quando faceva comodo per poi diventarne bersaglio con Al Qaida l’11 settembre 2001. Bin Laden nel ‘91 aveva offerto persino i suoi uomini contro Saddam. Alla fine del 1991, con la dissoluzione dell’Urss, la Russia aveva perso perfino tutti i territori guadagnati dagli zar e non aveva più una frontiera comune con il Medio Oriente. Nel 2015 il ritorno della Russia di Putin nella regione – dopo i fallimenti occidentali con la guerra in Siria e in Libia – in opposizione alla Turchia, ha segnato una svolta mentre già si stava profilando una penetrazione economica cinese dal Mediterraneo al Medio Oriente, ai Balcani con effetti per ora imprevedibili.

L’unico principio statunitense mai cambiato dal ’91 – e che si sta rafforzando con una presenza militare costante – è questo: il Golfo, la principale fonte energetica mondiale che condiziona i mercati e l’approvvigionamento, quindi anche la Russia e la Cina, non si tocca. Biden ce ne darà una lapalissiana conferma.

* Fonte: Alberto Negri, il manifesto



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