Seidik Abba: «La soluzione per il Sahel non può essere solo militare»

Seidik Abba: «La soluzione per il Sahel non può essere solo militare»

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Attacchi contro le popolazioni civili (2mila morti in questi ultimi due anni e 2 milioni di profughi), attentati sempre più frequenti sia contro militari francesi sia contro la missione Minusma e le forze di sicurezza locali, proteste contro la presenza francese in Mali e polemiche in Francia con la richiesta di ritiro dei militari della missione Barkhane. In questo clima il 15 e il 16 febbraio si terrà a N’djamena, in Ciad, il vertice tra i paesi della forza G-5 Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania) e la Francia, per decidere le prossime strategie di contrasto all’ascesa jihadista nella regione. Sulla situazione nel Sahel e oltre, il manifesto ha intervistato Seidik Abba, giornalista e scrittore esperto di jihadismo in Africa.

 

SEIDIK ABBA è caporedattore di Mondafrique e corrispondente dal Sahel per France24 e Tv5 Monde. Tra i suoi libri «La Rébellion touarègue au Niger» e il recente «Pour comprendre Boko Haram»

 

Quali sono le connotazioni dei principali gruppi armati attivi oggi sul terreno?

I due principali network che operano nel Sahel sono il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim o Gsim) guidato da Iyad Ag Ghali, affiliato ad Al Qaeda, e lo Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs). Hanno strategie differenti; l’Eigs è costituita da miliziani prevalentemente stranieri (mediorientali, algerini, libici), opera principalmente nella zona delle «tre frontiere» (Niger, Burkina Faso e Mali) e mira a un’espansione territoriale per la costituzione di un califfato. I suoi principali obiettivi sono i militari, i villaggi, le scuole proprio perché vuole colpire i simboli dello stato per evidenziare la mancanza dei differenti governi del Sahel. Al contrario lo Jnim ha una connotazione più locale, con numerosi miliziani africani, visto che al suo interno ci sono gruppi jihadisti autoctoni tra cui la Katiba Macina, guidata da Amadou Koufa, numero 2 del network. Lo Jnim ha un’azione più politica e sociale proprio perché vuole instaurare la Sharia in quei territori, predicando quindi l’ideologia salafita tra le popolazioni, e si pone come sostituto dello stato per quanto riguarda la protezione e la fornitura di servizi essenziali che mancano in quelle zone.

Quali sono le cause del suo sviluppo nel continente africano?

La loro espansione e crescita è legata inizialmente alla sottovalutazione dei diversi governi , come è avvenuto in Mali o in Nigeria. Sia lo Jnim che l’Eigs si sono rafforzati anche grazie al fatto che hanno convissuto per diversi anni tollerandosi, al contrario di quanto accaduto in Medio Oriente, e solo recentemente hanno cominciato a combattersi per la supremazia in quest’area. Un esempio recente della loro volontà di espandersi è stata l’uccisione dei militari francesi con attacchi rivendicati dallo Jnim nell’area delle «tre frontiere», nella quale il gruppo non era attivo. La principale causa della loro crescita è comunque l’assenza dello stato nelle aree più povere dei paesi saheliani, la mancanza di sicurezza, di servizi essenziali (scuole, ospedali, acqua), di prospettive future e l’estrema povertà che ha spinto numerosi giovani africani ad aderire a questi gruppi più per necessità – un miliziano viene pagato circa 100 euro al mese – che per reali convinzioni religiose ed ideologiche.

Recentemente ha pubblicato un libro su Boko Haram, dopo più di 10 anni perché non si vedono soluzioni riguardo alla piaga jihadista in Nigeria?

La risposta è sempre legata al fatto che Boko Haram ha trovato e trova terreno fertile per crescere a causa dell’estrema povertà in cui vivono le popolazioni degli stati settentrionali della Nigeria o la mancanza di prospettive future che spinge i giovani ad arruolarsi. Un altro problema è certamente l’errata strategia del presidente Muhammadu Buhari, eletto due volte nel 2015 e 2019 proprio perché aveva promesso di debellare la minaccia jihadista. Al contrario di quanto promesso, l’esercito nigeriano, nonostante l’utilizzo dell’aviazione e di mezzi corazzati, non è stato in grado, come non lo è tuttora, di contrastare Boko Haram a causa di scelte sbagliate, scarsa efficacia delle operazioni militari e la volontà di non creare avamposti in numerose aree del paese, cosa che ha causato una maggiore vulnerabilità per le popolazioni esposte a violenze e attacchi continui da parte dei gruppi jihadisti. Altri fattori sono indubbiamente la mancanza di proposte economiche e di sviluppo per quelle aree e le conseguenti tensioni inter-etniche. Possiamo, comunque, affermare che, in questi anni, Boko Haram da nazionale è diventato una minaccia regionale perché colpisce in tutta l’area del lago Ciad e la forza multinazionale Mnjtf (Ciad, Camerun, Niger, Nigeria e Benin) al momento si è dimostrata totalmente inadeguata, anche per carenze logistiche e di coordinamento comune nel contrastarlo.

Dopo il previsto ritiro dei militari francesi dell’operazione Barkhane, gli eserciti del G-5 Sahel saranno in grado di contrastare la minaccia jihadista nell’area?

Penso sinceramente che un ritiro da parte dei militari francese della forza Barkhane sarebbe in questo momento catastrofico per tutta l’area. Le forze del G5 – Sahel (Niger, Burkina Faso, Mauritania, Mali e Ciad) sono attualmente inadeguate per capacità gestionali del conflitto e per carenze di addestramento e armamenti in confronto all’expertise dimostrata dai miliziani jihadisti. Bisognerà vedere se queste forze riusciranno ad ottenere anche dei finanziamenti da parte dell’Onu – osteggiati fino a questo momento dall’amministrazione americana uscente di Trump – per migliorare le loro carenze. La supervisione logistica della missione antijhadsita Barkhane, insieme a quella di addestramento dei militari a mandato europeo «Takuba» sono in questo momento essenziali per arginare l’ascesa jihadista nel Sahel.

Ma la Francia è accusata di sfruttare l’ascesa jihadista per ricolonizzare il Sahel… Cosa ne pensa?

I governi di questi paesi hanno richiesto un sostegno militare da parte della Francia e lo sostengono politicamente come confermato nel vertice di Pau e, molto probabilmente, nel vertice di N’djamena. Le principali proteste sono legate alle incertezze della popolazione riguardo alla presenza francese e alla sua efficacia per la protezione dei civili, a causa dei continui attentati e attacchi contro la popolazione inerme. Resta il fatto che Barkhane abbia ottenuto dei risultati, soprattutto in quest’ultimo anno, ma che sia ancora necessario un potenziamento degli eserciti nazionali di questi paesi, con il supporto francese, europeo e del contingente Minusma, in maniera da renderli maggiormente autonomi in termini di difesa della popolazione. Mi sembra positivo, come deciso nel vertice di Pau, che la Francia stia puntando molto nel coinvolgimento della comunità internazionale per favorire una migliore governance e per affrontare la minaccia jihadista in tutta l’area, cambiando così il suo approccio anche nei confronti della popolazione.

Dopo 8 anni di Serval e Barkhane, quale può essere la soluzione per combattere il fenomeno jihadista in Africa?

La soluzione ai problemi del Sahel non può essere solo di tipo militare. Occorre una soluzione globale, di sviluppo di queste aree con un cambiamento a livello economico e sociale che veda un miglioramento di governance nei confronti di popolazioni soggette all’abbandono dei governi centrali o a episodi di violenza indiscriminata verso alcune etnie, di corruzione e di abuso. Tutti fattori che, uniti alla povertà, giocano a favore dell’ascesa jihadista in tutta l’area. In questi anni, ad esempio, i diversi governi hanno lucrato su circa un miliardo di euro in aiuti umanitari da parte delle agenzie Onu, a causa della corruzione della classe politica, mentre al contrario avrebbero dovuto investire per creare migliori condizioni per le popolazioni locali con scuole, servizi sanitari e crescita lavorativa. Se questo verrà realmente realizzato anche il fenomeno jihadista perderà gran parte della sua forza propulsiva.

 

A N’DJIAMENA TUTTO PRONTO PER IL SUMMIT FRANCIA/G5 SAHEL. MA MACRON RESTA A PARIGI

A N’djamena, lunedì e martedì prossimi, né il presidente francese Macron, né il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, né la ministra della Difesa Florence Parly saranno presenti fisicamente all’atteso summit del G5 Sahel, organizzato nella capitale ciadiana a un anno da quello che si è svolto a Pau, in Francia, per decidere le prossime mosse anti-jihad nella regione saheliana. La scelta di annullare il viaggio, presa ieri dall’Eliseo, sarebbe dovuta «unicamente a ragioni sanitarie». Dallo staff presidenziale fanno sapere che la misura delle frontiere chiuse per i cittadini francesi vale anche per il presidente e i membri del governo. Macron dunque parteciperà al vertice collegato in videoconferenza da Parigi. E molto probabilmente non annuncerà, come previsto inizialmente, la riduzione del contingente militare francese della missione Barkhane.

* Fonte: Stefano Mauro, il manifesto

 

ph by Thomas GOISQUE, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons



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