Ergastolo: quando la vendetta si maschera da giustizia
La pena perpetua è questione che divide opinione pubblica, partiti, Parlamento, “addetti ai lavori”. Lo riconfermano i commenti alla sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo cosiddetto ostativo, ma è storia di sempre.
Il referendum abrogativo del 1981, promosso dal Partito Radicale, ottenne il 22,63% dei consensi. In 7.114.719 votarono contro la permanenza dell’ergastolo, allora non aggravato dalla “ostatività”. Molti di più (24.330.954) votarono a favore della sua permanenza, ma il numero significativo di abolizionisti mostrava un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti e delle forze politiche, in maggioranza schierate per la permanenza del “fine pena mai”, tentennati o silenti.
A quel tempo gli ergastolani erano 318.
In quegli anni Ottanta esistette un movimento dal nome programmatico: “Liberarsi dalla necessità del carcere”, sorto tra Parma e Trieste ma presto divenuto nazionale. Nacque per iniziativa non già di terribili sovversivi (che in quegli anni erano a migliaia perlopiù e giustappunto in carcere, sepolti da leggi di emergenza e secoli di galera) ma da amministratori locali e operatori come Mario Tommasini e Franco Rotelli, con una forte sensibilità sociale ed eredi delle utopie concrete di Franco Basaglia.
Fu così che, dal basso, vale a dire dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa sia all’interno delle carceri sia nella società libera, ancora ricca di fermenti associativi e di culture critiche, si arrivò alla riforma penitenziaria, varata nel 1986 da un Parlamento ancora irrigidito dagli anni della lotta armata, delle carceri e delle leggi speciali, ma, evidentemente, pure aperto alla sollecitazione e al cambiamento, grazie anche alla presenza della Sinistra indipendente nella quale era stato eletto il senatore Mario Gozzini che diede il nome alla riforma.
Beninteso: non fu una passeggiata, perché anche allora furono forti le pressioni conservative di una componente potente e organizzata della magistratura e delle procure antiterrorismo (definita, in altra occasione, la «Loggia dei 36» da Rossana Rossanda e dal quotidiano “il manifesto”), molto capace di farsi ascoltare dai legislatori e dai media, condizionando spesso i primi e godendo di una assidua presenza e amplificazione sui secondi.
Il movimento del pendolo
Nella storia delle carceri riforme e controriforme mostrano l’andamento del pendolo: dopo ogni apertura, presto o tardi (in genere assai presto), inesorabilmente si fa strada una rinnovata, e spesso ancor più rigida, chiusura. Così successe anche allora, sull’onda emotiva delle stragi di mafia dei primi anni Novanta. Anche se va detto e ricordato – poiché indicativo della strumentalità di certe posizioni e argomenti – che l’introduzione dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari gli autori di taluni reati particolarmente gravi e da cui discende la cosiddetta ostatività, è del 1991, vale a dire prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, a seguito delle quali venne inasprito, ma essendo già esistente. Da lì prese piede e velocità la nuova emergenza e si produsse un nuovo e stringente apparato di norme che neppure la sentenza odierna della Consulta ha osato mettere in discussione nella sua intrinseca coerenza. E che, anzi, parrebbe voler confermare, laddove scrive: «Tuttavia, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata».
In effetti, è l’intero edificio di quelle norme e della logica “combattente” a esse sottesa, è l’interdipendenza tra 4 bis, 416 bis, 41 bis, è la presunzione di pericolosità a prescindere, fondata unicamente sul titolo di reato commesso, è l’inversione dell’onere della prova quanto al perdurare di appartenenze criminali, è quel sistema basato sul sostanzialismo giuridico, sul sentimento dell’occhio per occhio e sulla convinzione che il fine giustifichi i mezzi, che andrebbero rivisti e in buona parte smantellati.
La Costituzione violata da trent’anni
Da allora, sono passati esattamente trent’anni. Aspetto sul quale nessuno pare soffermarsi nelle valutazioni della sentenza costituzionale del 15 aprile 2021. Una sentenza che alcuni definiscono pilatesca altri coraggiosa, ma che certo non si può definire tempestiva. Ci sono voluti cioè trent’anni per acclarare e dichiarare, pur ancora timidamente e con proroga di un anno, che il nostro sistema delle pene è costituzionalmente illegittimo in una sua parte significativa, che riguarda un numero ristretto di persone ma che – altro elemento che pochi sembrano cogliere – trascina inevitabilmente verso l’alto tutte le pene e irrigidisce l’intero sistema.
Un numero relativamente piccolo, ma vistosamente crescente.
Alla pena perpetua erano condannate circa 400 persone il 30 aprile 1998, data in cui il Senato della Repubblica approvò l’abolizione della pena dell’ergastolo “semplice”, con 107 voti favorevoli, 51 contrari e 8 astenuti. Un coraggio politico e civile che oggi può sembrare incredibile, ma è un fatto che fa parte della storia rimossa di questo paese. Una delle figure più autorevoli che a quel tempo si oppose all’abrogazione, il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, è in seguito divenuto abolizionista.
Anche allora, nell’annoso e accidentato percorso di umanizzazione delle carceri e delle pene, ci fu una repentina inversione di marcia: meno di un anno dopo, il ministro di Giustizia Oliviero Diliberto defenestrò da capo dell’Amministrazione penitenziaria Alessandro Margara, già giudice e magistrato di sorveglianza, tra i padri della riforma, di una umanità e competenza senza pari. Era di nuovo cambiata la fase: Margara, inviso ai potenti sindacati corporativi della polizia penitenziaria, di cui aveva osato mettere in discussione i privilegi, venne estromesso dal Guardasigilli comunista per fare posto a uno dei magistrati protagonisti prima dell’emergenza antiterrorismo, poi di quella antimafia e oggi, dalla pensione ma sempre mediaticamente assai attivo, ancora vibrante e preventivo censore della Consulta e della Corte europea dei diritti umani riguardo la possibilità di incrinare la norma dell’ergastolo integrale e perpetuo.
La riforma dolosamente archiviata
La lettera, pacata ma amara, che Margara scrisse al ministro defenestratore si concludeva così: «Per le mie idee, che sono quelle della legge penitenziaria, l’orizzonte mi sembra molto fosco». Si vide presto quanto avesse ragione. Era cambiata non solo la fase, ma addirittura il secolo e la luce della riforma era stata dolosamente prima abbassata e poi spenta. Il pendolo era stato bloccato, una volta per tutte. Nella primavera del 2000 arrivò a sancirlo vistosamente il massacro nel carcere di Sassari, preceduto dall’arrivo di un nuovo comandante, che così, secondo la stampa dell’epoca si presentò: «Io sono il vostro Dio. In quindici giorni diventerete come degli agnellini. Il lager in confronto è un paradiso: qui comincia l’inferno». Mantenne subito la parola, quanto meno riguardo l’inferno.
Da allora, nelle carceri italiane sono stati pochi ed evanescenti i segnali controcorrente e la condizione dei reclusi non è migliorata. Per alcuni di loro, poi, l’inferno è rimasto condizione quotidiana, anche senza la violenza fisica. Quella delle norme può essere ancor più feroce, perché duratura e quasi sempre indiscussa; può essere esercitata apertamente anziché nel remoto delle segrete e consente prestigio e carriera (il che, per la verità, vale anche spesso per quella fisica, come Genova 2001 ci ricorda), è sostenuta da un consenso diffuso e trasversale e dal plauso di media e commentatori.
A chi si trova, spesso appunto da trent’anni, in quella condizione, oltre alla libertà e alla dignità si vorrebbe togliere ogni speranza. E quando non la si toglie, come ieri la Consulta, la si diluisce e prolunga nell’ennesima attesa.
Gli ostaggi della vendetta
Oggi, a fine 2020, gli ergastolani in carcere sono diventati 1.784, nel 2015 erano 1.633, dieci anni prima erano 1.224. Circa i due terzi sono “ostativi”, non possono cioè ottenere alcun beneficio se non “collaborano” con i magistrati, ovvero non denunciano altri, anche se non hanno più nessuno da denunciare. Si tratta di un numero in costante crescita, in forte controtendenza rispetto al calo della criminalità, mafiosa e non, e degli omicidi.
Questi i dati, questo il quadro. Mistificati dalla propaganda e rifiutati dal sentimento di vendetta. Comprensibile se riguarda il singolo, barbaro e ingiustificabile se promana dalle istituzioni.
Ora la Consulta ha gettato la palla nel campo della politica, del governo e del Parlamento. È difficile essere ottimisti su come verrà usato l’anno di tempo per tradurre la sentenza costituzionale. Mentre è doveroso pensare a come vivranno questo ulteriore anno di attesa i murati vivi nelle celle.
Papa Francesco, con il coraggio della verità che in pochi mostrano di avere, ha definito l’ergastolo ostativo «pena di morte mascherata».
Nel 1981, mentre gli italiani in maggioranza bocciavano la proposta di abolire l’ergastolo non ancora incattivito dall’ostatività, la Francia abbandonava la pena di morte. Decisione certo tardiva ma indubbiamente presa contro la pubblica opinione. Il ministro della Giustizia Robert Badinter, che con determinazione impose quella scelta, affermò: «Sacrilegio contro la vita, la pena di morte è per giunta inutile. Mai, da nessuna parte, ha ridotto la criminalità cruenta. Reazione e non dissuasione, non è altro che l’espressione legalizzata dell’istinto di morte. Ci abbassa senza proteggerci. È vendetta, non giustizia».
L’identico ragionamento vale per la pena di morte mascherata che tanti vorrebbero conservare in Italia e che ha ora guadagnato un altro anno di tempo. Il tempo, quello che nelle celle di quei sepolti vivi si è imparato a non contare, perché scorrendo non avvicina la libertà ma solo la morte.
* Fonte: Sergio Segio, Vita.it
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