È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura.
Ogni difesa acritica del loro comportamento è inammissibile in uno Stato costituzionale di diritto. Ogni sottovalutazione o tentativo di circoscriverne la portata non aiuta a riportare il sistema penitenziario nell’arco della legalità. In quel video non abbiamo visto mele marce al lavoro. Erano troppo numerosi i responsabili delle violenze e non si intravedevano mele sane che provavano a riportare i colleghi alla ragionevolezza.
Questo non significa che le mele sane non vi siano. Sono fortunatamente tante, lavorano in silenzio, non vomitano odio sui social, non si fanno condizionare da chi inneggia alle forze di polizia russe o brasiliane, non fanno carriera quanto meriterebbero. La quantità di poliziotti coinvolti ci porta però dentro valutazioni di tipo sistemico.
Dunque, in attesa del processo penale, proviamo a definire alcune vie di uscita da questo meccanismo di auto-esaltazione. In primo luogo vorremmo che le più alte cariche dello Stato dicano un no secco e senza eccezioni alla tortura e alla violenza istituzionale, preannunciando non solo un’indagine rapida amministrativa interna che porti a sanzioni disciplinari ma anche la volontà di costituirsi parte civile nel futuro procedimento penale. I provvedimenti del Dap di sospensione degli agenti coinvolti vanno in questa direzione. Così come le parole inequivoche della ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha parlato di «tradimento della Costituzione» nonché «di oltraggio alla dignità della persona dei detenuti».
In secondo luogo vorremmo che l’organizzazione penitenziaria rimetta al centro figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi e che si riapra dappertutto il carcere alla società esterna. C’è chi per motivi economici avrebbe voluto cooptare gli educatori nel corpo di Polizia. Un errore di visione che avrebbe cambiato la fisionomia del carcere, a scapito della trasparenza e delle finalità costituzionali. Ogni occhio che arriva da fuori le mura è una forma di prevenzione dalla tentazione di maltrattamenti. Il direttore di carcere deve essere inequivocabilmente messo al vertice della gerarchia interna, senza cedere alle pressioni corporative delle organizzazioni sindacali autonome di Polizia penitenziaria. I sindacati confederali devono essere un’avanguardia democratica e mai cedere alla competizione securitaria con quelli che chiedono più taser per tutti. È necessario che si adottino linee guida nazionali su come gestire situazioni di rischio, affidandosi anche a una formazione interdisciplinare e interprofessionale.
La video-sorveglianza deve coprire tutte le aree del carcere, anche quelle oscure, come le scale o le sezioni di isolamento. I medici non devono mai sentirsi costretti dentro rapporti di tipo gerarchico con chi ha funzioni di controllo. Devono essere messi nelle condizioni di visitare in libertà e riservatezza le persone che hanno subito violenza. Infine vorremmo che vi fosse una visione costituzionale e condivisa della pena. La Costituzione non va tollerata, elusa, ridicolizzata. La Costituzione va rispettata, applicata. Sarebbe un gran bel segnale se all’indomani dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere fosse adottato un nuovo regolamento di vita penitenziaria (il precedente è del 2000) ispirato ai principi di responsabilità, integrazione, normalità e rispetto della dignità umana.
* Fonte: Patrizio Gonnella, il manifesto