Greenwashing. Riforestazione, i conti non tornano
Le aziende più energivore, società petrolifere, produttori di auto, compagnie aeree, spacciano grandi risultati ma non è così: secondo Science, delle 89 milioni di tonnellate promesse ne sono state compensate solo il 6%
Piantare alberi per compensare le emissioni di carbonio è una strategia molto popolare soprattutto tra le grandi imprese. Ma il beneficio reale di questi progetti di conservazione ambientale è trascurabile. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica statunitense Science e realizzata da un’équipe internazionale coordinata da Thales West, ricercatore per le università di Amsterdam (Paesi bassi) e Cambridge (Regno unito).
I ricercatori hanno preso in esame 26 progetti di riforestazione con cui le aziende compensano le emissioni di cui sono responsabili finanziando progetti di conservazione delle foreste in giro per il mondo. Il sistema si chiama REDD+ («Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation projects», cioè Riduzione delle emissioni da progetti di deforestazione e di impoverimento delle foreste).
I crediti REDD+ rappresentano i due terzi dell’intero mercato delle emissioni di carbonio, per un valore complessivo di 1,3 miliardi di dollari (dati 2021). Possono essere spesi nei mercati delle emissioni nazionali e internazionali, dove le aziende devono dimostrare livelli crescenti di sostenibilità ambientale.
È UN SISTEMA molto gradito alle aziende, soprattutto quelle più energivore: permette di proseguire indisturbate le proprie attività inquinanti in cambio di una spesa limitata che si può «rivendere» al pubblico con spot pubblicitari pieni di boschi montani e foreste pluviali. Ne approfittano società petrolifere, produttori di automobili, compagnie aeree.
Questa strategia di greenwashing assolve moralmente anche il consumatore persuaso che l’acquisto dell’auto o del biglietto aereo, invece di contribuire al riscaldamento climatico, si rovesci magicamente in un beneficio per l’ambiente attraverso nuovi alberi piantati chissà dove. Purtroppo, dimostrano i dati, non è così.
Per quantificare il beneficio di un intervento di riforestazione, occorre stimare quale sarebbe stato il grado di deforestazione in assenza dell’intervento e misurare la differenza con ciò che è accaduto dopo l’intervento. Secondo lo studio, la stima del tasso di deforestazione precedente all’intervento è sistematicamente esagerata nelle certificazioni dei progetti, facendo apparire gli interventi più efficaci di quanto siano in realtà.
Ad esempio, rivelano i ricercatori, per la foresta amazzonica i dati non tengono conto che dopo il 2004 la prima presidenza Lula ha fortemente rallentato il tasso di deforestazione. Il beneficio degli interventi andrebbe attribuito al governo brasiliano e non alle imprese che ne hanno ricavato crediti per le emissioni.
USANDO DATI più dettagliati e aggiornati, i ricercatori hanno ricalcolato i risultati reali. La differenza è nettissima: mentre i progetti promettevano di compensare emissioni pari a 89 milioni di tonnellate, il reale impatto stimato dai ricercatori è di sole 5,4 tonnellate, cioè il 94% in meno. Praticamente nulla.
In un commento sullo stesso numero di Science, i ricercatori Julia Jones (Università di Bangor, Regno unito) e Simon Lewis (Università di Leeds) riassumono il danno multiplo causato dalle aziende: «I crediti ingannevoli comportano conseguenze negative per il clima in quanto non riducono le emissioni, per la conservazione delle foreste perché non stanno riducendo la deforestazione come sostengono e per l’economia futura della conservazione delle foreste perché il rischio reputazionale derivante da potenziali accuse di greenwashing potrebbe allontanare futuri investimenti in questa direzione».
* Fonte/autore: Andrea Capocci, il manifesto
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