Renzi, quando finisce una favola

Renzi, quando finisce una favola

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Vale più un senato non elet­tivo o una rica­duta del paese nella reces­sione? La poli­tica di imma­gine cara a Renzi riceve dai dati Istat un sonoro schiaffo, dopo le figu­racce della riti­rata sulla riforma — che già non poteva dirsi epo­cale — della PA, e della fal­lita pro­messa di allar­gare la pla­tea per gli 80 euro in busta paga.
Come si poteva pre­ve­dere, non sono bastati quasi 8000 emen­da­menti a fer­mare i rifor­ma­tori a ogni costo. E va ancora ricor­dato che que­sta prima let­tura del senato è decisiva.

Se la camera appro­vasse il testo senato così com’è, la prima deli­be­ra­zione delle due richie­ste dall’art. 138 si chiu­de­rebbe, e nes­suna modi­fica potrebbe più essere intro­dotta in seconda deli­be­ra­zione. I numeri della camera met­tono il governo al riparo da sor­prese. Poco importa se sono costruiti in mas­sima parte pro­prio sui mec­ca­ni­smi dichia­rati inco­sti­tu­zio­nali con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale. Pd e M5S nelle ele­zioni del 2013 hanno avuto rispet­ti­va­mente il 25,43% e il 25,56% dei voti, ma otten­gono 292 e 108 depu­tati (archi­vio ele­zioni interno). Prova evi­dente che non doveva essere que­sto par­la­mento a rifor­mare la costi­tu­zione vio­lata dalla legge elet­to­rale che ne deter­mina i numeri.

Certo il pre­si­dente Grasso ha dato una mano, aprendo la strada all’uso esten­sivo del “can­guro” e alla mor­dac­chia del con­tin­gen­ta­mento dei tempi. Non con­vin­cono il richiamo al rego­la­mento e alla prassi. Il valore di una inter­pre­ta­zione o di un pre­ce­dente dipende non solo dalla mera sovrap­po­ni­bi­lità degli ele­menti di fatto, ma anche — e tal­volta soprat­tutto — dal con­te­sto. E non c’è dub­bio che la situa­zione oggi data non si fosse mai veri­fi­cata prima. Una pro­po­sta di riforma total­mente inte­stata al governo, posta espli­ci­ta­mente a con­di­zione della soprav­vi­venza dello stesso e della legi­sla­tura, tesa a smi­nuire deci­si­va­mente il peso poli­tico e i poteri for­mali dell’istituzione par­la­mento cui lo stesso governo dovrebbe essere sot­to­po­sto per la fidu­cia, il con­trollo, la vigi­lanza, volta a dare una tor­sione for­te­mente mag­gio­ri­ta­ria e cen­trata sull’esecutivo al sistema nel suo com­plesso. Che peso pote­vano mai avere pre­ce­denti e prassi in una situa­zione mai prima veri­fi­ca­tasi, radi­cal­mente diversa e nuova? E dun­que si può con­clu­dere che senza scan­dalo le norme rego­la­men­tari sul voto segreto avreb­bero potuto essere lette più esten­si­va­mente, e al con­tra­rio le prassi sul can­guro e sul con­tin­gen­ta­mento più restrittivamente.

Le poche modi­fi­che intro­dotte in aula o sono lif­ting di poca sostanza, come per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare o il refe­ren­dum, o aggiun­gono ambi­guità e apo­rie a un testo già pes­simo. Per­ché gover­na­tori, con­si­glieri regio­nali e sin­daci dovreb­bero poter legi­fe­rare sulla fami­glia o su temi di bio­e­tica, morte e vita? Ne avranno mai fatto oggetto di cam­pa­gna elet­to­rale? Hanno un man­dato? Per non par­lare della par­te­ci­pa­zione alla revi­sione costi­tu­zio­nale, e della ben nota que­stione dell’immunità-impunità.
Nel merito, la que­stione senato mac­chia inde­le­bil­mente una riforma che per altro verso con­tiene punti anche apprez­za­bili. È un’ovvietà la sop­pres­sione del Cnel, ripe­tu­ta­mente pro­po­sta nel corso degli anni. E la intro­du­zione nel titolo V di una clau­sola di supre­ma­zia mirata all’unità della Repub­blica e all’interesse nazio­nale cor­regge uno dei più gravi errori fatti dal cen­tro­si­ni­stra nel 2001, con la can­cel­la­zione dell’interesse nazio­nale richia­mato nella Carta del 1948. Bene anche la sem­pli­fi­ca­zione delle pote­stà legi­sla­tive, pur poten­dosi fare di più e meglio.

Ma il metodo offende. Per­ché apre su costi­tu­zioni deboli, non da tutti rico­no­sciute come carta fon­da­men­tale della con­vi­venza civile. Nel 1983, la com­mis­sione Bozzi non si avviò fin­ché non ci fu la firma di Napo­li­tano per il Pci. La pro­po­sta della com­mis­sione D’Alema morì con l’attacco di Ber­lu­sconi nell’aula della camera (28 gen­naio e 27 mag­gio 1998) al testo, che pure Fi aveva con­tri­buito a scri­vere. Poi nel 2001 il primo cat­tivo pre­ce­dente, con il cen­tro­si­ni­stra che forzò sulla riforma del titolo V, spe­rando che il quasi-federalismo in esso con­te­nuto potesse rigua­da­gnare con­sensi al Nord. Sap­piamo come finì. Il cen­tro­de­stra resti­tuì il colpo nel 2005, con la grande riforma della devo­lu­tion e del primo mini­stro asso­luto che il popolo ita­liano rifiutò nel refe­ren­dum del 25 giu­gno 2006. Ora ci risiamo, con Ber­lu­sconi mira­co­lato da Renzi e dal patto del Naza­reno, e una mag­gio­ranza spu­ria che riduce al silen­zio l’opposizione. Un pes­simo via­tico. Men­tre bastava man­te­nere il senato elet­tivo per evi­tare ogni problema.

Almeno ser­visse a qual­cosa. Ma per gli ultimi dati Istat siamo di nuovo in reces­sione. La poli­tica dell’immagine non ha spo­stato di un mil­li­me­tro i dati reali della crisi. Dra­ghi dice alla Bce che vanno meglio i paesi in cui sono state messe in campo stra­te­gie effi­caci di riforma. Al con­tra­rio, quelle stra­te­gie sono man­cate nei paesi che vanno peg­gio. Così è per l’Italia, a riprova del fatto che delle tanto strom­baz­zate riforme isti­tu­zio­nali non importa niente al mer­cato, all’Europa, non­ché ovvia­mente agli italiani.

Que­sto è un paese di grandi affa­bu­la­tori. Prima Ber­lu­sconi, ora Renzi, in van­tag­gio per­ché ha la metà degli anni, parec­chi vizi in meno, e tutti i capelli. Ma per entrambi il pro­blema è stato ed è che le favole devono pur finire, prima o poi. E il rischio è che poi vis­sero tutti infe­lici e scontenti.



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