I fronti aperti nell’interregno, in un mondo multipolare

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Per quanto i com­men­ta­tori già nostal­gici di Obama, si siano affret­tati a spe­ci­fi­care che la bato­sta del mid­term non muterà più di tanto la pos­si­bi­lità del pre­si­dente ame­ri­cano di inci­dere sullo sce­na­rio inter­na­zio­nale (è pur sem­pre Com­man­der in chief), la debo­lezza con cui Obama esce da que­sta tor­nata elet­to­rale, non può che mutare alcune que­stioni inter­na­zio­nali. Secondo il colum­nist del New York Times, Jon­ha­tan Free­d­land, il ver­detto su Obama è già stato scritto dalla sto­ria. Nel 2009, «al Cairo ha pro­messo un nuovo ini­zio di rela­zioni con il mondo musul­mano. Invece, è nato e cre­sciuto lo Stato islamico.

Ha minac­ciato Assad. Minac­cia eva­po­rata. John Kerry, si diceva teso a tro­vare un accordo tra israe­liani e pale­sti­nesi, ma il risul­tato è stato un fal­li­mento. Obama si è oppo­sto all’annessione della Cri­mea alla Rus­sia, ma non è riu­scito a fer­marla. Nel suo primo giu­ra­mento da pre­si­dente, ha pro­messo la chiu­sura di Guan­ta­namo. È ancora lì». Non sono gli ame­ri­cani che hanno for­nito un ver­detto su Obama, con­clude Free­d­land: «È il resto del mondo che è giunto alla con­clu­sione che il suo potere sta ormai evaporando».

Obama è sem­pre stato accu­sato dai repub­bli­cani di avere una poli­tica estera debole. Que­sto atteg­gia­mento potrebbe coin­ci­dere con l’emergere – ormai – di un mondo mul­ti­po­lare, in cui potenze regio­nali minano la supre­ma­zia ame­ri­cana, rea­liz­za­tasi dalla fine della guerra fredda in poi. E sono in molti ormai — per quanto il nazio­na­li­smo repub­bli­cano spinga per tor­nare al periodo impe­riale — a vedere gli Usa in lenta deca­denza. Obama, per i suoi soste­ni­tori, avrebbe capito il mondo con­tem­po­ra­neo, sce­gliendo di tenere un atteg­gia­mento mode­rato, sco­vando — quando pos­si­bile — alleanze allar­gate (e un po’ con chiun­que, biso­gna aggiungere).

A que­sta «pru­denza» in alcune aree del mondo, ha cor­ri­spo­sto l’attività in Asia, per con­tra­stare la Cina: accordi mili­tari e un trat­tato com­mer­ciale che dovrebbe tagliare fuori pro­prio Pechino. Il «pivot to Asia» ha rischiato di creare crisi nel Paci­fico, ma può essere con­si­de­rato il ful­cro della poli­tica estera di Obama. O almeno, quella in cui le idee sem­bra­vano più chiare. E ora, con l’attenzione che tor­nerà all’Iraq, la Cina potrà pre­oc­cu­parsi meno di Washing­ton e si assi­sterà al pro­gres­sivo riarmo dei paesi alleati degli Usa, che pen­se­ranno sem­pre più di dover fare da soli. C’è poi il capi­tolo euro­peo. La cam­pa­gna elet­to­rale mid­term è comin­ciata in Ucraina. In quel caso gli Usa hanno man­dato agenti Cia e fun­zio­nari neo­con (cele­bre il caso di Nuland che manda a quel paese pro­prio l’Ue) per siste­mare le cose: avvi­ci­nare l’Ucraina all’Europa, com­ple­ta­mente prona ai voleri di Washing­ton, come dimo­stra il Ttip, allon­ta­nando e iso­lando Mosca. Il risul­tato – di nuovo — è stato con­trad­dit­to­rio. Un governo filo ame­ri­cano (il pre­si­dente Poro­shenko defi­nito «our insi­der in Kiev» dai fun­zio­nari Usa) si è inse­diato a Kiev, ma la Cri­mea è diven­tata russa e l’Ucraina orien­tale è un campo di battaglia.

E Mosca e Pechino hanno siglato un con­tratto tren­ten­nale per il gas.

Infine le que­stioni più note. Si sa che i repub­bli­cani spin­gono per un ritorno in Iraq, ipo­tesi che Obama ha sem­pre rifiu­tato. E pro­prio in quelle aree si gio­cherà la par­tita interna per la pros­sima pre­si­denza, imma­gi­nando un riav­vi­ci­na­mento tra Usa e Israele. Ma la pros­sima pro­ba­bile can­di­data demo­cra­tica, Hil­lary Clin­ton — che già riscuote il con­senso dei ren­ziani di casa nostra e che è ben più a destra di Obama — ha recen­te­mente aperto un vero e pro­prio fronte interno, cri­ti­cando la reti­cenza del pre­si­dente. Hil­lary in quell’area ha un pre­ce­dente niente male: l’11 set­tem­bre 2012 i jiha­di­sti ucci­sero l’ambasciatore Usa in Libia, Ste­vens. E pro­prio Ste­vens era stato man­dato da Clin­ton per gestire gli insorti con­tro Ghed­dafi. Libia, Siria, un disa­stro die­tro l’altro, guerre uma­ni­ta­rie che allora costa­rono l’uscita di scena alla pros­sima can­di­data democratica.

Che per appa­rire più forte ha già indi­cato la rotta: l’Isis – ha detto – è la nuova Unione sovie­tica, in rap­pre­sen­tanza di un’America che sem­bra non ras­se­gnarsi all’inesorabile sci­vo­la­mento verso un mondo mul­ti­po­lare. Con o senza Obama.



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