Venti di guerra. Iran, la voragine si avvicina

Venti di guerra. Iran, la voragine si avvicina

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Mentre la crisi italiana dopo il voto del 4 marzo getta la maschera, con la rischiosa trattativa di governo tra le due forze populiste vincenti ed emergenti, all’ombra dello «statista» Berlusconi, ecco che subito si riaffaccia la voragine di un’altra guerra.

Stavolta con l’Iran come target e Israele come protagonista.

Sono decine le persone uccise nei raid israeliani della notte scorsa in Siria «contro obiettivi iraniani»; l’esercito israeliano – che sostiene di aver reagito al lancio di venti razzi sul Golan (che è territorio siriano occupato da Israele) – ha colpito con 70 missili complessivi, 60 con 28 jet F15 ed F16 e dieci con missili tattici terra-terra dal territorio israeliano.

È la prova generale di un’altra guerra su vasta scala e diretta, dopo le tante in Siria «per procura».

Alla nuova deflagrazione ha dato il via libera Trump con la denuncia dell’accordo sul nucleare civile dell’Iran faticosamente raggiunto da Obama insieme ai 5 più 1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e definito da Mogherini «storico».

Lo ha fatto con l’annuncio peggiore di nuove sanzioni non solo contro l’Iran ma anche contro chi avrà rapporti con Teheran.

Che quella di Trump sia una scelta di guerra, lo ha denunciato anche il segretario dell’Onu Antònio Guterres. Ma per Trump è di più: è una promessa elettorale da rovesciare nella voragine mediorientale.

Come del resto l’altro «ordigno» che lancerà tra poche ore: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Perché l’intento della Casa bianca è lasciare incandescente il «forno» del conflitto tra sciiti e sunniti, eredità delle guerre bipartisan contro l’Iraq.

La guerra in Siria non deve finire con la sconfitta – invece cogente – dello jihadismo alimentato in primis dall’Arabia saudita alleato storico d’acciaio degli Stati uniti.

Per questo Trump è diventato un piazzista di armi.

A fine 2017 ha riunito il fronte sunnita a Riyadh per schierarlo contro l’Iran, portando in dote alla petromonarchia dei Saud una fornitura di armi di 100 miliardi di dollari. E qui, tra Mediterraneo, fossa comune di migranti e martoriato Medio Oriente non c’è nemmeno la Cina a garantirgli la scena per una trattativa con il cattivo di turno, come accade nella penisola coreana.

Direttore d’orchestra il premier israeliano Benjamin Netanyhau, che aizza contro il nucleare civile dell’Iran mentre Israele possiede centinaia di atomiche (alcune puntate su Teheran) e che va al conflitto, e al tiro al piccione dei palestinesi – dopo aver fatto scempio di ogni possibilità di pace interna – perfino «in bicicletta», sponsorizzato dai media occidentali dopo le tre tappe israeliane del Giro d’Italia (povero Ginettaccio).

Unica voce alternativa al mondo Amnesty International che, dopo un rapporto agghiacciante sui corpi devastati a Gaza dai proiettili israeliani, chiede con forza l’embargo di armi per Israele.

Il dossier nucleare di Netanyahu è pari alla sua faccia tosta: Israele è l’unica potenza atomica del Medio Oriente e detta legge sul nucleare civile altrui; eppure «Bibi», con uno spettacolo da comico di crociera, ha «rivelato» al mondo le presunte preparazioni atomiche dell’Iran che l’atomica non ce l’ha, ma aderisce a controlli e Trattati, e vuole solo diversificare le fonti energetiche per la crisi economica che l’attanaglia anche per il peso delle sanzioni Usa.

Mentre in queste ore l’Arabia saudita – fomentatrice del jihadismo sunnita e alleata d’Israele – avverte: «Se Teheran avrà l’atomica anche noi l’avremo».

Tra gli altri effetti collaterali, la scena sembra pronta per l’intervento diplomatico di Putin, grande alleato della presidenza Rohani,- del resto Putin venne pubblicamente ringraziato da Obama nel 2015 per la sua decisiva mediazione.

Alternativa alla guerra sembra stavolta la reazione dell’Unione europea che di quell’accordo è stata in parte artefice. Ora, almeno a parole, da Macron a Mogherini, da Merkel all’uscente Gentiloni, si conferma uno schieramento contrario perfino con l’atlantica May. Tutti presi a schiaffi in faccia da Trump.

Ma che accadrà quando le capitali europee dovranno fare i conti con lo spettro che già terrorizza, vale a dire l’annunciato embargo americano alle transazioni con l’Iran? Ci vorrebbe allora un’Europa non atlantica.

Perché mentre l’Unione europea si barcamena solo sulle vicende monetarie ed economiche perseguendo coi vincoli di bilancio le già scarse politiche sociali dei Paesi comunitari, la sua politica estera fin qui resta avventurista o apre fronti tardo-coloniali, come fa Macron in Africa; oppure pensa alla difesa europea ma come doppio subalterno (nelle spese e nelle finalità) all’unica realtà sovranazionale d’Europa: la Nato.

Teheran intanto minimizza.

Ma s’incendiano nuovi fronti. Così si prepara al peggio. Che non è solo il conflitto in Siria, ma l’attesa provocazione di un raid aereo israeliano su siti nucleari iraniani – un déjà-vu che stavolta sarebbe un detonatore – del quale già si intravvede la traiettoria.

Siamo nella voragine. Ci stiamo dentro nel vuoto di contenuti e di forze che assumano la pace e il rispetto della Costituzione come condizione senza la quale non c’è governo possibile.

FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO



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