Usa e Israele contro lo staterello virtuale

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 GERUSALEMME.«Libici, il mondo intero è con voi», ha detto ieri Barack Obama concludendo il suo intervento alla riunione al Palazzo di Vetro sulla Libia. Più o meno in quello stesso momento il presidente del Kosovo, la signora Atifete Jahjaga, che ha incontrato Hillary Clinton nei giorni scorsi, ha riferito che il Segretario di stato riafferma pieno appoggio degli Usa alla sovranità  e all’integrità  territoriale del suo paese.

Passano gli anni, le Amministrazioni e i presidenti ma la politica americana non cambia: libertà  (a parole) e indipendenza per tutti, ma non per i palestinesi. Sino a quando Israele non darà  il suo consenso firmando un accordo, i palestinesi non potranno avere uno Stato, anche minuscolo, sulla loro terra e dovranno rimanere sotto occupazione. Obama confermerà  oggi al premier israeliano Netanyahu che gli intende far abortire subito la richiesta palestinese di adesione, convincendo i paesi membri del Consiglio di Sicurezza a votare contro. Poco importa se Abu Mazen chiede l’ingresso alle Nazione Unite di uno staterello simbolico che difficilmente sarà  sovrano quando avrà  realizzazione concreta.
Qualche tempo fa in Israele si dibatteva della «tensione» tra Obama e Netanyahu, dello «scontro» sugli insediamenti colonici tra Usa e Israele, e i settler issavano manifesti con l’immagine del presidente Usa con al collo la kefia palestinese. Ora Obama è un alleato di ferro di Tel Aviv. Si avvicinano a grandi passi le presidenziali e l’inquilino della Casa Bianca crede di poter arrestare l’emorragia di consensi con l’aiuto della influente lobby pro-Israele. Ma non è l’unico in casa americana a guardare a quell’appoggio. In questi giorni negli States si fa a gara nel dimostrare sostegno incondizionato a Tel Aviv. Il potenziale candidato repubblicano e ultraconservatore Mitt Romney ha esortato a tagliare subito il finanziamento annuale ai palestinesi (circa 500 milioni di dollari). Ha anche chiesto la revisione delle relazioni diplomatiche con i paesi che daranno un voto favorevole all’adesione dello Stato palestinese all’Onu superando a destra il suo rivale, il governatore del Texas Rick Perry, che qualche giorno fa aveva legato i finanziamenti all’Anp di Abu Mazen a un ritorno immediato e senza condizioni dei palestinesi alle trattative con Israele. Quattordici senatori da parte loro hanno esortato Obama ad usare toni categorici, veri e propri ordini, per riportare nei ranghi i palestinesi. L’ex candidato presidenziale Mike Huckabee invece spara siluri contro la Conferenza Durban III sui diritti umani (che l’Italia boicotterà  ancora una volta), che considera un vero e proprio attacco a Israele parallelo a quello «lanciato» dai palestinesi alle Nazioni Unite. E non può essere dimenticata neanche la dedizione del parlamentare repubblicano Joe Walsh, che lunedì ha presentato alla Camera un testo di risoluzione a favore della annessione a Israele di tutta la Cisgiordania.
Tanti sforzi concentrati contro uno Stato virtuale. E ora gira voce che il voto del Consiglio di Sicurezza verrà  rinviato sine die per un tacito accordo raggiunto tra i paesi membri più influenti. Notizie che turbano fino ad un certo punto la popolazione palestinese, che già  guarda senza particolari emozioni al progresso dell’iniziativa lanciata dall’Olp.
Oggi migliaia di persone, mobilitate dal partito di Abu Mazen, Fatah, si ritroveranno in piazza a Ramallah, per sostenere la richiesta di adesione all’Onu. La stessa piazza dove ieri è stata portata una enorme sedia di legno, simbolo del 194° seggio alle Nazioni Unite che vorrebbe occupare la Palestina. È prevista una marcia che partirà  dalla tomba del presidente scomparso Yasser Arafat e si concluderà  davanti al quartier generale dell’Anp. Circa 7.500 agenti israeliani verranno dispiegati nei pressi dei principali posti di blocco.


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