Da Robinson Crusoe al Titanic la grande metafora dell’Occidente

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Se gli esseri umani sono “gettati a vivere” involontariamente sulla terra, niente li racconta più esattamente di un naufragio. «Gettato in quell’isola desolata» è Robinson. Un barilotto, un chiodo, un’accetta, dei chicchi di grano, uno spago – da lì riparte la storia della civilizzazione. Nessuna metafora è più forte, né il terremoto – il mare è un terremoto intermittente ma perenne – né l’eruzione del vulcano né il diluvio – l’arca di Noé è la prima scialuppa salvata dal naufragio universale. Il naufragio è insieme spoliazione e destituzione di tutto, e possibile promessa di nuovo inizio. Il naufragio viene prima del naufrago: il naufrago è il risultato, uno dei relitti depositati dalla risacca. I marinai temono la bonaccia quanto e più della bufera, ma il naufragio esemplare ha bisogno della furia della natura. Il romanticismo non può far a meno di tempesta e naufragio. Invece un naufragio in acqua ferma, in una notte dolce, in vista della riva, è la più imbarazzante delle sventure: un proverbio di Sorrento, culla di marinai, dice che incagliare la nave nella sabbia è brutto, ma incagliarla negli scogli è orribile. L’enorme nave coricata sul fianco – «la carcassa ubriaca d’acqua» – assomiglia più all’agonia di un capodoglio disorientato che a un naufragio. Ma anche la Concordia ha messo alla prova la tempra degli umani. Il naufragio va assieme all’abnegazione – annegare, è una parola sola – e alla viltà : fino al cannibalismo, alla zattera della Medusa. I naufraghi si dibattono in un inferno: Delacroix dipinge la barca di Dante alla quale i dannati si aggrappano, mordendo il bordo coi denti, respingendosi a calci l’un l’altro. 
La superstizione dei marinai di oggi è la risacca del capriccio degli dei e del castigo di Dio. L’Odissea è un manuale di naufragi. I resoconti e le raccolte di storie di naufragi sono avvincenti, come i quadri e gli ex-voto. Qualche titolo: I Naufragi di Cabeza de Vaca (1507-59), le Navigazioni di Ramusio (1485-1557), le fantastiche Storie di naufragi di Louis Deperthes, che contenevano la testimonianza del marinaio scozzese Selkirk, l’ispiratore di Defoe per Robinson, ed ebbero la felice sorte di uscire nel 1789, la Vera storia della baleniera Essex (1820), che avrebbe ispirato Melville, i Naufragi di Francisco Coloane, gli atti del ricco convegno dell’università  di Cagliari sui “Naufragi”, 1992 (Bulzoni).
Allegria di naufragi, intitolò, fra molti ripensamenti, Ungaretti, e non aveva in mente l’eccitazione lucreziana che danno le catastrofi, ma piuttosto la decisione del superstite di riprendere il viaggio. Ci sono storie di ricominciamenti impressionanti, come quella del patrizio veneziano Pietro Querini. Salpò da Candia nel 1431 con un carico vario e un equipaggio di 68 uomini. Oltre il capo Finisterre vennero spinti dalla tempesta al largo dell’Irlanda, lì la nave affondò e si imbarcarono in due scialuppe. Una si perse, l’altra andò alla deriva per mesi, alcuni bevvero il mare e impazzirono, altri bevvero la propria urina. Approdarono a uno scoglio delle isole Lofoten, nel nord della Norvegia. Dei 48 imbarcati restavano 16. Gli isolani di Rà¸st li trovarono e li ospitarono per quattro mesi. Viene da lì la consuetudine veneta e italiana con lo stoccafisso, e anche la battuta sulle sembianze latine degli abitanti di Rà¸st. Nel 1432 Querini e i suoi tornarono fortunosamente a Venezia, e un anno dopo Querini ripartì alla volta delle Lofoten, e di lì verso l’estremo nord, dove si persero la sua vita e le sue tracce.
Un naufragio di giardinetto pubblico sta a custodia della nostra lingua: «E il naufragar m’è dolce in questo mare»; la traduzione di Sainte-Beuve lo muta in tutt’altro suono e cosa, e accentua all’estremo la seduzione: «Et sur ces mers sans fin j’aime jusqu’au naufrage». Amare da morire, amare da naufragare. 
La fiction ha soppiantato da tempo le storie di naufragi marini con quelli di astronavi nello spazio, i cui detriti ingombrano il cielo: aveva cominciato Verne col naufragio della mongolfiera. Sul fondale degli oceani giacciono, secondo la stima delle Nazioni Unite, più di 3 milioni di bastimenti naufragati. E storie e leggende di tesori sepolti. Le assicurazioni nacquero da lì, dalla necessità  di coprire le spedizioni navali. Nasce da lì, forse, anche il nome fortunato di racket. Wrack è in inglese la nave naufragata, il relitto. Andar al raque è l’espressione castigliana per il recupero, e anche il saccheggio, di relitti. Non so che cosa è venuto prima. In fondo alla Terra del fuoco c’è il più grande cimitero di navi del mondo, i naufragi provocati dalle onde e quelli commissionati dagli armatori. Quando il vapore prese il sopravvento, i velieri non furono semplicemente disarmati; i loro capitani coraggiosi furono mandati a naufragare in quelle tempeste favolose, per far incassare il premio dell’assicurazione. 
Guai, ogni volta che si riscrive una riga attorno alla nave alta come un palazzo di venti piani, ai suoi passeggeri internazionali e alla sua ciurma extracomunitaria, a dimenticare i naufragi che, senza neanche meritare questo nome magnanimo, seminano di ossa senza nome il mare fra Africa ed Europa, e i pescatori che, a costo di malevolenze e denunce, ne soccorrono gli scampati. Fra la premura che dedichiamo ai migranti e quella riservata alla Concordia c’è una sproporzione più grande che fa i loro miserabili barconi e la nave colossale del Giglio. E questo ha molte spiegazioni comprensibili, ma nessuna cancella del tutto una differenza che ha a che fare col valore di mercato delle vite, che è un sinonimo leggero del razzismo.


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