I Segreti del Gattopardo

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«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», dice Tancredi allo zio Fabrizio, principe di Salina. La frase rimbalza nella memoria del Gattopardo. E poi, chiuso il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ancora e ancora tante altre volte, fino a diventare la leggendaria etichetta che ogni cosa dovrebbe contenere di quel libro – uno dei più clamorosi successi del Novecento, tradotto in tutto il mondo e portato al cinema e alla Palma d’oro di Cannes da Luchino Visconti. 

Salvatore Silvano Nigro, professore di Letteratura a Milano, quella frase l’ha però bandita nel suo Il Principe fulvo (Sellerio, pagg. 151, euro 13), un volume che propone del Gattopardo una lettura affatto diversa: «Quella frase oscura il romanzo da cinquant’anni», dice Nigro nel suo siciliano rotondo. «E anche il film di Visconti ha contribuito». Nigro – catanese, ha insegnato alla Normale di Pisa, si è occupato di Quattrocento, Cinquecento, di letteratura comica e poi di Manzoni, fino a Soldati, Bufalino, Consolo e Camilleri – utilizza lettere inedite, tira fuori dal Gattopardo tante immagini, tanti dettagli e tanti simboli «incredibilmente trascurati», tanti rimandi ad altri autori, ad altre vicende, un fiume che si ingrossa attingendo al mondo antico, all’universo mitologico. Un repertorio spesso intravisto in Tomasi di Lampedusa, ma poco indagato. 
Nigro individua, per esempio, una rete di sotterranei riferimenti al fascismo, piccole tracce seminate non casualmente da Tomasi, il quale, ardente ammiratore di Mussolini, cambia radicalmente opinione dal 1938. E ricava infine l’idea di «un romanzo più fantastico che storico, persino allegorico, letterariamente densissimo che sta stretto in un’interpretazione tutta antirisorgimentale. Insieme a quell’altra di tipo aneddotico, condizionata dalla sorprendente figura del suo autore, il nobile siciliano vissuto appartato e poi, assurto da morto a gloria letteraria, diventato un personaggio sezionato in ogni aspetto, i palazzi di famiglia, la moglie psicanalista estone…». E a riprova di una memoria letteraria che produce nel romanzo forti suggestioni, Nigro cita un documento. Prima di Visconti, anche Mario Soldati lavorò a un film sul Gattopardo. Non ne fece nulla, troppo estranea la Sicilia di Tomasi, ma resta la copia sulla quale lo scrittore di America primo amore annotava le sue impressioni: Proust, Proust e ancora Proust. 
Nigro porta con sé da anni quest’altro Gattopardo. Ne aveva parlato con Elvira Sellerio poco prima che lei morisse. Un romanzo fantastico e allegorico, dunque. Il principe di Salina «è una monumentale statua vivente e le statue che camminano sono un elemento dei romanzi fantastici», spiega. Egli è alto oltremisura, ha i capelli fulvi come un leone. In un’occasione compare nudo agli occhi verecondi di Padre Pirrone, il prete di famiglia. E Tomasi lo assimila a Ercole, ma non all’eroe mitologico, bensì all’Ercole Farnese, la gigantesca scultura classica entrata a fine Settecento nella collezione dei Borbone e diventata l’emblema della casa regnante. Mentre Ferdinando IV è ospite proprio dei principi di Lampedusa fra la rivoluzione giacobina (1799) e il regno murattiano (1808-1815), una copia dell’Ercole Farnese, segnala Nigro, è sistemata a Palermo nel Parco della Favorita. E nel Palazzo dei Normanni, residenza dei sovrani, viene affrescata la Sala d’Ercole.
Il principe di Salina, si è sempre detto, è un uomo ancien régime che si adatta al nuovo perché la sua classe sociale, agonizzante e impoverita, non sia spazzata via. Il principe di Salina raccontato da Nigro raccoglie in sé «i connotati simbolici e i riferimenti allegorici della defunta regalità  borbonica». Lui è un borbonico disilluso, intanto dall’imbecillità  degli ultimi sovrani. A loro resta legato, non per affetto, «ma per i vincoli di decenza». E all’arrivo di Garibaldi, indossata l’armatura di pietra, si avvia verso la fine. 
La ricca sfumatura di simboli che avvolge don Fabrizio svanisce in una lettura che fa del Gattopardo il manifesto di un antirisorgimento aristocratico e sudista. Si perdono i riferimenti al gusto barocco del principe contro quello neoclassico della borghesia vincente. Si perdono le citazioni dantesche (la scena che chiude il romanzo, per esempio, in cui rivive l’episodio di Vanni Fucci). Evapora il corredo mitologico, laico, lucreziano che scorta don Fabrizio verso la morte. E poi che cos’è la morte se non una forma di beatitudine? Il Gattopardo, suggerisce Nigro, va letto insieme al racconto di Tomasi La sirena, in cui si immagina che un vecchio professore siciliano, navigando fra Palermo e Napoli, si faccia sedurre, appunto, da una sirena che lo trascina nei fondali garantendogli una eternità  voluttuosa. Fra le fonti di questo racconto, oltre a tanta letteratura greca, Nigro colloca The Sea Lady di Herbert George Wells (le cui opere, d’altronde, figurano nella biblioteca del vecchio professore). Una misteriosa donna, bella, con i guanti di camoscio, compare anche alla stazione, dove il principe sbarca ormai consapevole che la malattia gli lascia poche ore di vita. È una Venere in abiti mondani, la stessa sirena del professore, questa la tesi di Nigro, che traduce in piacere gli spasimi della morte. 
Sulla fine del principe si affollano i simboli, insiste Nigro. Eppure è sfuggito che il posto in cui Tomasi fa morire don Fabrizio, l’albergo Trinacria a Palermo, «è letterariamente e ideologicamente connotato»: qui Federico De Roberto e Giuseppe Cesare Abba collocano uno dei luoghi dell’epopea garibaldina. E Tomasi non può non saperlo. 
Si diceva dei riferimenti al fascismo. Orribile è la lettera del 1925 (pubblicata in Viaggio in Europa) in cui il trentenne Tomasi annota come la “strigliata” a Giovanni Amendola lo riempia di “delicata voluttà ” (per quelle bastonature Amendola sarebbe morto l’anno successivo). La scena cambia nel 1938. Nigro documenta, sulla base dell’epistolario fra Tomasi e la moglie, quanto il principe di Lampedusa si sia speso per una coppia di ebrei tedeschi rifugiati a Palermo e poi riparati a Barcellona dopo le leggi razziali. Il rovesciamento di opinioni trova spazio anche nel Gattopardo. Nigro segnala le allusioni del colonnello piemontese, nella celebre scena del ballo, alle camicie di altro colore che verranno dopo quelle rosse garibaldine. E poi le “baracconate di gale e pennacchi”, le parate di “formiche incolonnate”. Ma un particolare davvero sorprende. «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene», dice don Fabrizio. Calogero Sedà ra, certo, il furbo sindaco di Donnafugata, padre di Angelica. Ma anche altro. Forzando la cronologia del romanzo, Tomasi colloca la morte del principe alla fine di luglio del 1883. Per quale motivo, visto che la morte del bisnonno, che è il modello del suo personaggio, avviene nel 1885? Il 29 luglio del 1883 nasce a Predappio, Benito Mussolini. I Gattopardi e poi gli sciacalli e le iene. «La coincidenza porta fuori dagli argini del romanzo», commenta Nigro. «È messa in sordina, come un sussurro cancellato dal fragore della fine. Non è nell’ordine della storia, la coincidenza, ma dell’allegoria».


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