PARTIGIANI, ESULI E RIBELLI LA NOSTRA STORIA IN UNA DONNA

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Gli oggetti che vedete negli specchietti retrovisori sono più vicini di quanto appaiano. Così recita l’apposita scritta di sicurezza. E così deve pensarla Wu Ming 2, tessera dell’omonimo mosaico creativo “senza nome”, che girando lo sguardo al passato cattura un frammento di verità  tanto vicina da essere incollata alle nostre vite, al nostro presente. Parlano di noi le vicende, i personaggi e le persone che riempiono le oltre cinquecento pagine di Timira (Einaudi Stile libero). Ovvero la rivelazione al pubblico di una vita così particolare, come solo le terre di confine e di migranti (Italia compresa), sanno custodire negli angoli più remoti della propria anima.
Storia inzuppata di cose. Occhi accecati da mille immagini. Quasi da non afferrarne subito la visione di insieme, ma solo schegge di bellezza.
Timira è Isabella Marincola, di mamma somala e padre italiano, come avveniva spesso ai suoi tempi, quelli delle colonie (parola quasi rimossa nel nostro vocabolario). Modella, attrice (sorpresa nella sorpresa: è la mondina nera che appare in Riso Amaro), esule, ribelle rabbiosa e sconsolata, poi ancora profuga di due patrie. Sorella di Giorgio, giovane martire partigiano. Madre di Antar, emigrato in Italia dalla dittatura di Siad Barre, studente, attore, scrittore, volontario e mille altre cose ancora. Materiale infinito, quasi troppo, a cui Wu Ming 2 ha messo ordine con il rigore dello storico e un’abilità  quasi ottocentesca (nel senso del romanzo). Amante della verità , tanto da infilare nel libro documenti ufficiali, ma amante ancora più appassionato della forza narrativa, che richiede spruzzate di invenzioni, laddove la vicenda si inceppa o perde respiro, come accade con la realtà  (ahimè sempre più lenta della nostra fantasia).
Un romanzo “meticcio”, lo definisce Wu Ming 2: «L’abbiamo scritto in tre, io Isabella e Antar. Abbiamo realizzato in concreto un esperimento di convivenza, di società  multietnica. Che a parole sembra sempre bellissima ma invece è figlia di un duro lavoro, di tanta pazienza e impegno. E così è stato anche per creare questo romanzo. Io pensavo di intervistare Isabella, come per altro ho fatto per 20 ore, e poi di sbobinare il tutto, condirlo con le mie invenzioni stilistiche e via: il libro era pronto. Niente di più sbagliato: lei voleva essere protagonista sino in fondo, aveva voglia di ripercorrere la sua vita e così è stato. Mi consegnava fogli scritti a mano frutto dei suoi ricordi e del diario che aveva tenuto negli anni di Mogadiscio. Poi alla sua morte, una volta che con Antar abbiamo deciso di proseguire, è subentrato lui e ancora una volta abbiamo cambiato modo di procedere. Ci siamo parlati, ci siamo capiti, ci siamo rispettati: quello che serve per unire culture e punti di vista diversi».
Una moltitudine di parole, dove il lettore, preso il ritmo, non capisce più (e quel che più conta, meno che mai gli importa) quali sono fatti veri, quali sono quelli inventati e persino il tempo (il romanzo vive in più epoche, accese da continui flashback) si mischia, come a sovrapporsi in un inevitabile oggi. Ora e sempre. «È l’effetto che volevo: mi interessa il senso generale della storia, il suo significato più profondo. Volevo aprire una porta su nuovi universi, unire passato e presente». Porta che si spalanca, come già  con Q (dei Wu Ming) o con Asce di guerra scritto insieme a Vitaliano Ravagli (di cui Timira è in qualche modo la diretta conseguenza): libri che poi ti stimolano una fame insaziabile di sapere, di leggere saggi per conoscere più a fondo le vicende narrate.
Libri pieni di punti interrogativi, di salutari curiosità  liberate: «In Timira volevo riuscire a ragionare sul concetto di profughi, su quanto noi ci rendiamo così poco conto della nostra precarietà  in questi tempi. Di quanto sia importante essere cittadini e di quanto sia difficile invece la condizione di profugo, il non avere uno Stato, una casa. La vita di Isabella certo è eccezionale, ma invece alla fine diventa esemplare, l’eccezione si fa regola e ci serve per capire meglio questa condizione. Prendiamo i terremotati di questi giorni, sconvolti dal lutto scoprono che lo Stato per la prima volta non rimborserà  i danni e subito si sentono abbandonati. Diventano profughi. È questo che vorrei rimanesse: una consapevolezza». 
Per questo la storia, mescolata, maneggiata con le parole serve a mettere a fuoco meglio il profilo del nuovo orizzonte: «Guardarsi indietro è utile, raccontare i fatti passati aiuta, è una buona palestra per capire la complessità  del presente. A condizione che non si facciano sconti: Timira per esempio non è un romanzo comodo, rovescia molti stereotipi, la stessa Isabella emerge con le sue contraddizioni e tutto questo contribuisce a costruire una mappa per orientarsi». La storia e le parole, la voglia di raccontare: «Perché la narrazione è importante, è un mattone decisivo nella costruzione di una comunità . Bisogna raccontare sempre verità  nuove, ridire le stesse cose con parole diverse. E per riuscirci bisogna avere un’etica, una deontologia professionale: arrivare a colpire il cuore della verità  narrativa». 
E si arriva alla fine del libro stremati. Quasi una fatica fisica. Stanchi ma con una bella sensazione dentro. Felici per aver esplorato questo mondo sconosciuto così lontano da noi: l’Italia che siamo diventati e che troppo spesso, per pigrizia e comodità , facciamo finta di ignorare.


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