Se la Rete sceglie la rotativa

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I padroni di Internet compreranno a prezzi di saldo tutta la carta stampata, dopo essere stati in parte all’origine del suo declino? Ma se ora vogliono i giornali, è per farne che cosa? Dopo l’acquisto del Washington Post da parte del fondatore di Amazon, un interrogativo domina i commenti americani: si vuol capire se i colossi della New Economy si stiano muovendo in una vecchia logica di potere, che considera i giornali come utili pedine nel gioco del lobbying politico verso la Casa Bianca e il Congresso; oppure se vogliano cimentarsi con una “reinvenzione” dell’industria dei media, adattandola ancora più rapidamente all’era digitale. Jeff Bezos, fondatore e chief executive di Amazon, sa di aver creato un’onda di shock con l’acquisizione del
Washington Post.

Avete sentito la notizia, e molti di voi l’accoglieranno con apprensione »: inizia così la sua lettera ai giornalisti e dipendenti della storica testata, pubblicata sullo stesso quotidiano di cui Bezos è diventato il padrone. Segue una professione di fede negli ideali del giornalismo indipendente: «I valori del
Washington Post non devono cambiare. Il dovere del giornale è verso i suoi lettori, non verso l’interesse privato del proprietario». Con una punta di campanilismo, Bezos esibisce un sovrano distacco dall’universo della politica: «Sono fiero — scrive — di vivere nell’altra Washington, dove ho un lavoro che amo». Lo Stato di Washington, sulla punta settentrionale della West Coast, è a ben sei ore di volo dalla Washington (District of Columbia) capitale federale. È un altro mondo, per valori e stili di vita. A Seattle e nelle vicinanze sono fioriti molti giganti dell’innovazione, creati negli ultimi decenni: Microsoft, Starbucks, e naturalmente Amazon.
Ma il principale concorrente e rivale storico del Washington Post, è il primo a mettere in dubbio la favola dell’imprenditore-mecenate, disinteressato e rispettoso verso i media. Il New York Times ha in prima pagina una lunga analisi intitolata Un magnate conquista un simbolo nella capitale.
La tesi è chiara: Bezos è a caccia d’influenza politica. Comprare il Washington Post gli costa, davvero, pochi spiccioli. Il prezzo d’acquisto fissato a 250 milioni di dollari è appena l’1% del patrimonio privato del fondatore di Amazon (25 miliardi). Sono sproporzioni tali da dare le vertigini. Apple, con oltre 100 miliardi di liquidità inutilizzata, potrebbe comprarsi tutti i giornali d’America, e i suoi azionisti se ne accorgerebbero a malapena nei bilanci di fine anno. Lo stesso vale per Google. Perché non lo hanno ancora fatto? Non tanto per ragioni di antitrust. Le regole contro le concentrazioni monopolistiche sono disegnate su misura per il secolo passato, impongono divieti giusti e rigorosi sulle fusioni tra tv e giornali, ma non sono state adeguate per fronteggiare i nuovi Moloch delle comunicazioni online.
«Bezos avrà un microfono potente a Washington, a pochi passi dalla Casa Bianca», conclude l’analisi del New York Times.
Il rivale newyorchese ignora non solo le (scontate) promesse di Bezos di non interferire sulla linea del giornale, ma con un’arroganza inconsueta tratta come irrilevante la tradizionale autonomia e dignità professionale dei giornalisti del Post.
Quale può essere l’interesse politico di Bezos? La sua cultura è di tipo libertario, come per molti imprenditori digitali della West Coast. Si sa che ha contribuito generosamente alla campagna per legalizzare i matrimoni gay nello Stato di Washington. Ma ha contribuito anche alla campagna contro i rialzi di imposte sui ricchi. A sinistra sui temi valoriali, a destra sulle politiche economiche che lo toccano nel portafoglio: questo è un posizionamento classico sulla West Coast. Non a caso, nelle elezioni congressuali i suoi contributi sono stati suddivisi molto equamente, 50/50 tra democratici e repubblicani.
Le politiche fiscali sono quelle che preoccupano di più Bezos. Fin dalle origini, Amazon fu fondata sull’elusione delle imposte. Quando 20 anni fa Bezos ebbe l’intuizione che Internet poteva diventare lo strumento principe per la vendita dei libri, come prima scelta attraversò gli Stati Uniti coast- to-coast, da New York a Seattle: in cerca di uno Stato che gli consentisse di ridurre al minimo la “sales tax” (un’imposta sui consumi che è l’equivalente americano dell’Iva). Da allora la sua fantasia si è scatenata in giochi ben più audaci, fino a collocare sedi Amazon in riserve indiane per sfruttarne lo status di paradisi fiscali. Alla pari di Apple e Google, Amazon è diventata uno dei simboli di un capitalismo digitale spregiudicato. Pronto ad abbracciare cause progressiste come l’ambiente, che piacciono al suo pubblico; altrettanto veloce nello sfruttare ogni cavillo legale per minimizzare la propria pressione fiscale. Ora il Senato Usa ha approvato una riforma che eliminerebbe i privilegi fiscali per le vendite online; ma la stessa legge è ferma alla Camera. Forse Bezos calcola che il semplice fatto di possedere il Washington Post renderà più malleabili nei suoi confronti i parlamentari di ambo i partiti? Malignità del
New York Times a parte, conoscendo i colleghi del Washington Post è davvero difficile immaginare che escano articoli in difesa dell’elusione fiscale dei giganti del commercio elettronico. E tuttavia le vie del lobbying sono infinite, per Bezos può avere dei benefici il passare dallo status del “provinciale venuto dall’Ovest” a quello dell’insider ben introdotto nei palazzi del potere federale.
È sulle colonne dello stesso Washington Post che affiora però un’interpretazione alternativa. Questa lettura viene legittimata da Bezos in persona. Il suo messaggio ai dipendenti del Washington Post si conclude con queste frasi: «Ci saranno dei cambiamenti, che sono essenziali, e ci sarebbero sotto qualsiasi proprietario. Internet trasforma ogni elemento dell’industria dell’informazione: accorcia tempi e cicli delle notizie, riduce fonti tradizionali di reddito, consente la nascita di nuovi concorrenti, alcuni dei quali non si fanno carico dei costi di raccogliere le notizie. Dovremo inventare, sperimentare». C’è in quel testo un attacco evidente a Google, accusato di comportamento parassitario: è diventato il principale intermediario mondiale nella diffusione di notizie, che sostanzialmente prende dai giornali sfruttandone la professionalità l’autorevolezza, la rete di redazioni, inviati e corrispondenti. Per poi lucrare sulla pubblicità, che aumenta a vantaggio di Google mentre si è ridotta sulla carta stampata. Bezos sposa la tesi degli editori di giornali contro Google e Apple, fingendo di ignorare che Amazon a sua volta è accusata di aver cannibalizzato i librai e le case editrici.
Sempre sul Washington Post, l’editorialista economico Jim Tankersley scrive: «Journalism needs a business model. Can Bezos find one?» L’informazione ha bisogno di un nuovo modello economico, che la renda sostenibile, cioè redditizia, se non vuole diventare schiava di editori che la usano per altri fini. La speranza di Tankersley, e dei suoi colleghi, è che Bezos applichi al Washington Post lo stesso talento innovativo con cui ha fatto di Amazon un leader mondiale nelle vendite online (non più solo di libri). A 49 anni, forse Bezos è ancora troppo giovane e ambizioso per comportarsi come altri imprenditori più tradizionali: ad esempio i fratelli Koch che concupiscono il Los Angeles Times e il Chicago Tribune per metterli al servizio di un progetto politico di destra; o Rupert Murdoch che investe a fondo perduto nel Wall Street Journal pur di intaccare l’egemonia progressista del New York Times sul suo mercato metropolitano. Se Bezos vuole davvero cimentarsi con una sfida d’innovazione del prodotto, le sinergie potenziali tra il
Washington Post e Amazon (con i suoi tablet Kindle, la sua attività di editore digitale) potranno offrirgli un vasto terreno di sperimentazione. Magari scatenando iniziative analoghe in qualche altro gigante della West Coast che dispone di piattaforme digitali non meno poderose.


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