Il campione di basket Marc Gasol tra i volontari di Open Arms: «Rabbia per come muoiono i migranti»

Il campione di basket Marc Gasol tra i volontari di Open Arms: «Rabbia per come muoiono i migranti»

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Josefa respira ancora anche grazie a lui. Nello scatto che ha compiuto il giro del mondo, tra condivisioni e discusse ricostruzioni governative, della 40enne camerunense attaccata a un pezzo di legno – quello che restava del fondo di un gommone su cui viaggiava con altre decine di migranti – per due giorni in mare dopo il naufragio di un barcone c’è anche Marc Gasol. Barba lunga e occhialini, uno dei più forti cestisti europei degli ultimi 20 anni, star della Nba ai Memphis Grizzlies con ingaggio a otto cifre. L’estate di riposo dai parquet americani dello spagnolo è immersione, sostegno ai migranti nel Mediterraneo a bordo di Proactiva Open Arms, organizzazione non governativa catalana, che nei giorni scorsi aveva denunciato l’inefficienza della Guardia costiera libica dopo settimane di storie tese con il ministero dell’Interno, partendo dallo sbarco con 59 migranti a Barcellona, dopo il divieto di avvicinarsi alle coste italiane e libiche. La scintilla in Marc tre anni fa, con la foto del bimbo siriano senza vita portato a riva dal mare che cominciava a consumare lo stomaco.

Poi, l’incontro con Oscar Camps, il fondatore di Open Arms, la condivisione di un progetto, soldi e tempo per soccorrere i migranti, quasi un’esigenza per un padre di figli con risorse a disposizione e la dimensione garantita da un pallone da basket. Come Gasol un altro catalano che nello sport ha vinto qualcosa e che soprattutto non teme di assumere posizione pubbliche, Pep Guardiola, allenatore del Manchester City campione d’Inghilterra, nelle scorse settimane ha donato 150 mila euro per riparare una nave di Proactiva Open Arms – che si trovava nel nostro Paese, sequestrata dalla procura di Catania per un’inchiesta sullo sbarco di migranti -, evitando così che tanti africani annegassero nel Mediterraneo.

Per Marc non solo portafogli, ci ha messo il fisico, come sul parquet. Lo stesso Gasol, fratello di Pau, anche lui stella del basket (la famiglia Gasol è assai impegnata nel sociale), ha postato sul suo profilo Twitter un’immagine che lo ritrae nel bel mezzo del salvataggio, commentando, in spagnolo, inglese e catalano: «Frustrazione, rabbia, impotenza. È incredibile come così tante persone vulnerabili vengano abbandonate alle loro morti in mare. Profonda ammirazione per quelli che stavolta chiamo i miei compagni di squadra». Una versione confermata, potenziata in un’intervista a El Pais: «Abbiamo ascoltato le conversazioni tra una motovedetta della Libia e una nave mercantile che chiedevano di impostare la rotta per una posizione specifica in cui una barca era in pericolo. Poi abbiamo appreso che la motovedetta libica ha riportato i naufraghi in Libia e distrutto la barca in cui erano stati due giorni e due notti. Ma hanno lasciato almeno tre persone abbandonate».

Ancora Gasol: «All’inizio sembrava che non ci fosse nessuno vivo. Poi siamo arrivati più vicini e abbiamo visto che c’era una donna viva aggrappata con un braccio a un pezzo di legno. Provo rabbia, impotenza ma anche la sensazione di aver contribuito a salvare una vita. Se non fosse stato per il nostro intervento nessuno avrebbe saputo cosa era successo. Si sarebbe detto che i libici avevano salvato 150 persone. Ma la realtà è che hanno lasciato la gente viva in mare. Se fossimo arrivati prima, avremmo potuto salvare più persone. Se invece avessimo ritardato quindici o venti minuti, anche Josefa sarebbe morta. La situazione è tale che è al di sopra dei miei sentimenti personali, stiamo parlando di atti criminali disumani. Queste persone dovrebbero essere state salvate».

* Fonte: Nicola Sellitti, IL MANIFESTO



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