Un anno di guerre commerciali e guerre tecnologiche

Un anno di guerre commerciali e guerre tecnologiche

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Dal 16° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia

1° Capitolo – ECONOMIA E LAVORO

Il Contesto. LA SINTESI

Il 2018 è stato l’anno del protezionismo, del nazionalismo risorgente, delle guerre commerciali e delle guerre tecnologiche, tutte manifestazioni di questa società globale finanziarizzata, in un’epoca in cui non è possibile – ancora – tornare alla guerra guerreggiata classica tra eserciti degli Stati dominanti. La guerra commerciale e quella tecnologica sono una variante geo-economica e geo-strategica di questo conflitto che assume una duplice caratteristica: una guerra civile tecnologica e di propaganda digitale e di militarizzazione dei rapporti di forza e di quelli sociali. Tutto ciò si inserisce in un contesto politico che vede l’Europa in crisi d’identità e l’America alle prese con il protezionismo aggressivo di Donald Trump.

La fine del Quantitative Easing. Nel 2018 si sono intensificati gli attacchi di Trump contro la Banca centrale americana: la Federal Reserve (Fed). L’abbandono della politica di alleggerimento quantitativo [Quantitative Easing, QE], con il conseguente aumento dei tassi di interesse, deciso dalla Fed, è continuato con decisione anche nel corso di questo anno. Per Trump è un’insidia per la crescita economica basata sui tagli fiscali, al netto di tutti gli altri problemi strutturali che comporterà la guerra dei dazi. Nei prossimi due anni la Banca centrale americana potrebbe aumentare i tassi otto volte per far fronte all’inflazione. In un momento in cui il prodotto interno lordo sta crescendo molto più velocemente della stima della Fed sul tasso sostenibile, il taglio delle tasse di Trump è benzina sul fuoco. Le sue manovre finanziarie sono concepite per sostituire la “droga monetaria” iniettata dalla Fed per anni. Di fronte a queste azioni, la Fed ha bisogno di accelerare gli aumenti dei tassi in modo proporzionato. Il punto è che tali aumenti derivano dal fatto che l’economia va bene e che la Banca centrale ritiene, così, di avere esaurito la sua missione di supplenza monetaria per un’economia in recessione. I regali fiscali di Trump sono invece il rilancio della medesima politica, con mezzi diversi. Negli stessi anni della ripresa, la Borsa è stata inondata da enormi liquidità che hanno agevolato la sopravvalutazione del mercato azionario «derivanti principalmente dall’espansione fiscale negli Stati Uniti e, più a medio termine, dalle probabili espansioni fiscali in diversi Paesi dell’area dell’euro» (Draghi, 2018). Emerge, inoltre, un dato strutturale: l’economia globale post-crisi ha bisogno di ricorrere sistematicamente a politiche fiscali ingiuste, oppure a politiche monetarie ultra-espansive, per sorreggere una crescita incerta e mantenerla artificialmente al di sopra dei suoi limiti. Il QE europeo è stato criticato per aver reso sempre più ricchi i già abbienti, perché fa salire i prezzi e ha finanziato principalmente le imprese che, tuttavia, non sembrano avere del tutto sbloccato i loro investimenti, mentre continua il boom del mercato finanziario. L’Italia ha fortemente beneficiato delle politiche di Mario Draghi. Le risorse liberate dal QE, e accordate dalla Commissione Europea che ha riconosciuto la “flessibilità” rispetto agli obiettivi congiunturali dei parametri di Maastricht, sono state investite in politiche pro-imprese (18 miliardi di euro per gli sgravi per i neoassunti con il Jobs Act) o per rilanciare i consumi (9 miliardi per il bonus IRPEF degli 80 euro). Entrambi gli obiettivi, voluti dai governi Renzi-Gentiloni, sono falliti: le imprese non hanno assunto in modo stabile (nel Jobs Act non esiste il “tempo indeterminato” ma un contratto a termine di tre anni rinnovabile all’infinito), i consumi non sono aumentati, la domanda interna ristagna, i salari sono di molto inferiori rispetto alla media UE, la nuova occupazione prodotta è integralmente precaria (9 su 10 neoassunti sono a termine). E l’inflazione è lontana dall’obiettivo della BCE. Da questo punto di vista, il “partito del QE” ha solo comprato tempo rispetto a una crisi strutturale, le cui premesse sono rimaste intatte.

La crisi dei “Paesi emergenti”. La desincronizzazione tra le strategie della Banca centrale USA e le altre Banche centrali ha rafforzato il cambio del dollaro, i capitali hanno lasciato i mercati emergenti per tornare a essere investiti su quello americano. Ciò ha prodotto drammatici contraccolpi su queste economie, rese più vulnerabili rispetto alla risalita dei tassi USA. Argentina, Turchia, Russia hanno registrato deprezzamenti dei rispettivi tassi di cambio, causando fughe di capitali e crollo delle rispettive valute. Effetti aggravati dai contrasti tra Casa Bianca e Fed sulla normalizzazione della politica monetaria. Per le cosiddette economie emergenti oggi è più costoso esportare negli Stati Uniti. I Paesi che hanno preso a prestito ingenti somme in dollari per finanziare la loro crescita dovranno sostenere un costo elevato per i pagamenti di interessi supplementari.

La Turchia ha subito le sanzioni commerciali imposte da Trump dopo l’arresto a Smirne del pastore evangelista americano Andrew Brunson, imputato di spionaggio e terrorismo. Trump ha accusato Erdogan di attaccare i diritti umani e ha usato le tariffe sulle esportazioni turche al posto della diplomazia. Erdogan ha risposto con dazi più elevati alle importazioni statunitensi. Nell’agosto 2018 la lira turca ha perso il 40% del suo valore di gennaio. Il Paese sarà costretto a concordare un salvataggio dal Fondo Monetario Internazionale.

L’India ha visto il suo debito estero salire a 530 miliardi di dollari a fine marzo, di cui il 42% in scadenza a marzo 2019, La rupia è crollata a un minimo record. Grande importatore di petrolio, elettronica e oro, il Paese potrebbe veder salire l’inflazione per le misure protezionistiche messe in atto da Trump.

L’Argentina presenta doppi disavanzi nella bilancia dei pagamenti della spesa pubblica e per la necessità di rifinanziare prestiti con le banche USA. La crisi della Turchia ha fatto crollare la moneta argentina. Il Paese ha poi affrontato uno scandalo di corruzione politica con la condanna dell’ex ministro dell’Economia Amado Boudou. Tutto ciò ha spinto il governo a chiedere al FMI di anticipare la consegna del prestito, infine concesso nel settembre 2018 per l’ammontare record di 57 miliardi di dollari, pur con clausola “stand by”, ovvero a rate. In cambio, il governo di Mauricio Macri dovrà attuare severi tagli alla spesa pubblica, mentre monta la protesta sociale: già quattro gli scioperi generali che hanno scosso il Paese.

Dopo la lira turca e il peso argentino è il rand del Sud Africa la moneta dei mercati emergenti che ha più sofferto. Il nuovo presidente Cyril Ramaphosa ha promesso di rilanciare l’economia ma è alle prese con un deficit del settore pubblico, quello della bilancia dei pagamenti e persistenti scandali di corruzione.

La Cina ha lottato contro il rallentamento della crescita del PIL e per reagire alla guerra commerciale di Trump. La Banca centrale ha pompato denaro e ciò ha portato lo yuan a un livello più basso rispetto al dollaro.

Salari bassi. Un’altra importante caratteristica dell’attuale situazione socioeconomica sono i bassi salari. La loro salita è in effetti molto contenuta, anche se esistono segnali positivi. Questa è una caratteristica comune a tutti i Paesi. La dinamica è chiara: aumenta il precariato, diminuisce la disoccupazione, i salari restano bassi, si allargano le diseguaglianze territoriali, di genere e di cittadinanza. Esiste un maggiore numero di persone al lavoro, ma lavorano peggio e guadagnano meno.

L’austerità in Grecia è infinita. Il 20 agosto 2018 la Grecia è uscita dal suo terzo e ultimo salvataggio. Il cammino però è ancora lungo. L’UE, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno prestato al Paese 289 miliardi, in gran parte finiti però a pagare gli interessi sul debito, mentre il Paese subiva un complessivo impoverimento. Le riforme economiche richieste in cambio dalla ex “Troika” hanno infatti messo i greci in ginocchio, con un quarto del PIL evaporato e il 27% di disoccupazione. La Grecia è entrata in un nuovo ciclo di austerità che durerà altri 42 anni di schiavitù dai debiti.

Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali

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