Carla Del Ponte: per fare funzionare la giustizia internazionale manca la volontà politica
Carla Del Ponte ha dedicato la sua vita alla legge. Il suo impegno come procuratrice capo del Tribunale Internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia e sul genocidio in Ruanda è stato totale, anche perché quei tribunali rappresentavano una speranza: quella di poter finalmente portare a giudizio i criminali di guerra, i responsabili di crimini contro l’umanità e genocidio. Così purtroppo non è stato, sostiene Del Ponte, che, con amarezza, parla di passi indietro in materia di giustizia internazionale e sottolinea che l’ONU ormai si vede limitato a portare aiuti umanitari, ostacolato com’è da veti e contro-veti al Consiglio di Sicurezza, nel suo compito principale di ottenere e mantenere pace e democrazia.
Lei è stata procuratrice capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia dal 1999 al 2007 e contemporaneamente di quello sul genocidio in Ruanda. Da allora, cosa è cambiato in termini di importanza, credibilità, sostegno a questi organismi internazionali?
Sia il Tribunale sull’ex Jugoslavia che il Tribunale sul Ruanda hanno terminato il loro mandato. È ancora attivo un meccanismo che consente di finire e definire i procedimenti che erano ancora in fase di appello. Quando abbiamo cominciato questo lavoro con il Tribunale Internazionale, sia con il Ruanda che con l’ex Jugoslavia, ci siamo detti: finalmente, la comunità internazionale ha raggiunto un risultato grandissimo, nel senso che gli alti responsabili politici e militari di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, saranno portati davanti a una corte, quindi dovranno rispondere di fronte alla giustizia dei loro crimini.
Purtroppo, oggi – nel 2020, ma è una situazione che si protrae da anni –, dobbiamo constatare che non abbiamo fatto grandi passi in questa direzione, perché in fondo i due tribunali sul Ruanda e l’ex Jugoslavia, sono stati sì un successo per la giustizia internazionale, ma poi sono stati chiusi e non hanno avuto nessun seguito. L’esempio classico è quello sulla Siria: sono stata membro della commissione di inchiesta sui crimini commessi in Siria, ma il Consiglio di Sicurezza non ha mai deciso nulla. Non ha potuto farlo perché con il diritto di veto dei membri permanenti alla fine non si riesce a fare niente. Devo dire che al momento attuale la situazione è veramente delicata e terribilmente dimentica dei diritti umani, del rispetto di questi diritti, e della punizione di questi crimini di cui la giustizia internazionale si occupa. Al momento abbiamo solo la Corte Permanente, l’International Criminal Court (ICC), che però ha notevoli problemi. Noi che pensavamo di aver fatto un passo avanti verso una giustizia equa per tutti e soprattutto una giustizia per le vittime, dobbiamo riconoscere che invece abbiamo fatto un passo indietro. Ossia, la giustizia internazionale esiste, perché la legge esiste e la legge internazionale esiste già dalla Prima e dalla Seconda guerra mondiale, ma non è applicata. E perché non è applicata? Perché non c’è volontà politica.
Quindi tutto dipende dalla volontà politica degli Stati. Se gli Stati dimostrano questa volontà di ottenere giustizia per le vittime di questi conflitti nei quali vengono commessi questi crimini, allora si possono fare passi importanti, altrimenti non succede niente. Noi che abbiamo dedicato la vita alla giustizia internazionale, a ottenerla per le vittime, dobbiamo arrenderci e dirci che non siamo riusciti nel nostro intento.
Che giudizio dà sul ruolo e influenza dell’ONU, sulla sua capacità di far rispettare le sue risoluzioni e superare le divisioni interne?
L’ONU è un’istituzione importantissima e ha come principio l’ottenimento e il mantenimento della pace e democrazia nei paesi, oltre naturalmente ad assicurare gli aiuti umanitari. Purtroppo, oggi è rimasto solo l’aiuto umanitario. Quello che era il compito principale, pace e democrazia, ottenere e mantenere pace e democrazia negli Stati non è più un compito realizzabile, perché il Consiglio di Sicurezza è bloccato dal diritto di veto dei membri permanenti. Questo significa che le risoluzioni non passano. E questo, come dicevo, è successo anche a noi al Tribunale Internazionale. Ossia, il Consiglio di Sicurezza aveva deciso di instaurare il Tribunale Internazionale. Ma poi ha cominciato a dare segni di insofferenza. In realtà, il Consiglio di Sicurezza aveva deciso di fare qualcosa poiché chiaramente i mass media e le ONG erano sul posto e quindi le informazioni su questi conflitti c’erano e circolavano. Venivano pubblicate giorno dopo giorno. Quindi il Consiglio di Sicurezza decise – e ricordiamoci che Madeleine Albright era ambasciatrice per gli Stati Uniti – di esprimere la sua volontà e poi di creare questi tribunali internazionali. Quando però questi tribunali internazionali sono ancora al lavoro, sette anni dopo la loro costituzione, alcuni Stati hanno cominciato dire: «Adesso basta».
Allora, nessuna Risoluzione al Consiglio di Sicurezza diventava possibile, perché quando uno Stato faceva una proposta, c’era sempre un altro Stato che metteva il veto. Noi, per esempio, avevamo difficoltà a ottenere l’arresto degli accusati perché questi si rifugiavano nel loro paese, dove erano considerati degli eroi e quindi nessuno li arrestava.
Non siamo mai riusciti a ottenere una Risoluzione in cui il Consiglio di Sicurezza dicesse: «bisogna provvedere all’ arresto di…», perché erano comunque mandati d’arresto internazionali. Non ci siamo mai riusciti. Forse giusto una volta siamo riusciti a ottenere una dichiarazione dal presidente del Consiglio di Sicurezza.
Il problema è che l’ONU non si è potuta mai riorganizzare. Quindi, quest’importantissima istituzione oggigiorno non riesce più a adempiere il suo mandato, che è quello della “magna carta” iniziale. Garantisce un po’ di aiuti umanitari qua e là, si arrabatta un po’ al livello internazionale, eppure vediamo quanti conflitti ci sono al mondo.
Diritti umani? Ma, fra un po’ ci chiederemo cosa sono questi “diritti umani”, perché ormai non se ne parla più, e invece è sempre stata una cosa principale, il rispetto dei diritti umani, la pace. Io davvero, con preoccupazione, mi chiedo dove andremo a finire.
Lei è stata anche membro della Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic. Un’esperienza che, più volte, ha detto essere stata un’enorme delusione? Perché, che cosa è mancato?
Sono entrata in questa commissione, non come presidente ma come membro. Chi comanda in una commissione è il presidente, che, in questo caso, più che dei risultati si preoccupava della longevità della commissione. E infatti è ancora attiva e mi chiedo francamente perché, visto che non serve a nulla. Ma non serviva già prima, quando ne ero ancora membro.
Mi sono accorta subito che pur essendo denominata commissione di inchiesta, cioè un organismo che avrebbe dovuto indagare sui crimini commessi durante il conflitto in Siria, in realtà non si poteva fare inchiesta, perché nessuno voleva che si facesse. Per me, ex procuratore, una commissione di inchiesta era quello che serviva, ma in realtà si tratta di una commissione messa in piedi per fare la lista eventuale dei crimini commessi, ma senza preoccuparsi di indicare e trovare i colpevoli. I nostri rapporti al Consiglio di Sicurezza a New York e a quello dei Diritti Umani all’ONU a Ginevra erano solo una lista, la stessa che si poteva leggere sulla stampa, forse addirittura con qualche indicazione maggiore anche perché noi, al contrario dei giornalisti, non potevamo entrare in territorio siriano, ma solo nei paesi limitrofi.
Mi sono dunque accorta molto presto che si trattava di una “commissione alibi” per la comunità internazionale. Abbiamo una commissione per i diritti umani a Ginevra, di nuova nascita visto che era stata istituita da pochi anni, e cosa si decide di fare? Una commissione di inchiesta che non può fare inchiesta, che però esce con questi rapporti ogni sei mesi nei quali si descrivono in modo abbastanza generico i crimini commessi. Quando io ho tentato di fare una vera inchiesta sono stata bloccata all’interno della commissione. Non si è voluto assolutamente che io facessi una vera inchiesta. E questo nonostante avessimo raccolto delle prove, ma non si poteva neanche parlarne nel rapporto, perché qualcuno diceva che questo o quello non si poteva dire. Per fare un esempio, potevamo cominciare con l’elencare i paesi che hanno fornito armi sia a una parte che all’altra, perché in una guerra che dura così a lungo, ci deve pure essere qualcuno che rifornisce di armi e attrezzature militari le parti, altrimenti il conflitto non potrebbe continuare. Infatti, noi avevamo quella lista, avevamo la lista degli Stati che aiutavano, finanziariamente ma anche vendendo armi. Ma non ci è stato permesso pubblicarla. Si possono leggere tutti i rapporti, ma non si troverà nessun nome, perché nessuno voleva mettere i nomi degli Stati.
È per quello che io me ne sono andata da questa “commissione alibi”, perché non si poteva fare niente. La commissione è ancora in piedi, anche se non so cosa faccia, ma so che non fa niente perché non può fare niente, perché non vuole fare niente, perché è predestinata a non fare niente. Questa è la grande delusione, questo è l’inganno totale per chi ci crede. Non solo non fa nulla questa commissione, ma nessuna delle commissioni ONU, che, alla fine, rischiano di non essere altro che paraventi per calmare gli animi di quelli che vorrebbero che si facesse qualcosa. Quindi Commissione Siria, e successivo meccanismo, non hanno fatto nulla.
Il Consiglio di Sicurezza non ha potuto mettere in piedi un tribunale perché la Russia ha sempre votato no. Come la Cina. E alla fine ci siamo abituati al conflitto in Siria, che è ancora in corso. Allora adesso, di tanto in tanto, se ne escono con l’aiuto umanitario, perché poi le vittime non sono solo vittime di torture e uccisioni durante il conflitto ma adesso muoiono anche di fame. L’ ONU cerca di aiutare, ma siamo sempre punto e a capo.
Questa per me è una vera vergogna, e, secondo me, il Segretario Generale dell’ONU dovrebbe avere un po’ più voce in capitolo, fare una bella conferenza stampa e parlare chiaro. Purtroppo, non lo fa perché dipende dai finanziamenti internazionali.
Che margini di manovra ha un procuratore capo in questi tribunali internazionali? qual è stata la sua esperienza, ritiene di essere riuscita a fare tutto quello che voleva o le sono stati posti davanti ostacoli/veti? La domanda che un po’ tutti si fanno è se queste istituzioni, come i Tribunali o le Commissioni in Indagine siano davvero indipendenti o se invece ci sono Stati che in qualche modo possono porre il veto o “orientare” il corso delle indagini, le persone da colpire…
Sì, il procuratore del Tribunale Internazionale è indipendente per legge: c’è proprio un articolo che dice che il Prosecutor dev’essere indipendente. Ma come fa a essere indipendente se alla fine dipende dal versamento dei contributi internazionali al Tribunale? Mi ricordo che siamo rimasti due mesi senza essere pagati perché qualche Stato non era d’accordo e non aveva pagato. Siamo andati una settimana a New York, alla famosa commissione del budget, perché noi dovevamo avere il nostro budget per poter lavorare, perché l’ufficio del procuratore aveva seicento impiegati, tra sostituti procuratori, investigatori, eccetera, e quelli bisognava pagarli alla fine del mese. Gli ostacoli erano tantissimi. Penso alle inchieste del Tribunale sull’ex Jugoslavia o sul Ruanda. Gli Stati dell’ex Jugoslavia non collaboravano con noi, quindi dovevamo ottenere la possibilità di fare le inchieste. Ho anche scritto un libro su questi problemi. Quindi, sì, il Prosecutor era indipendente, ma rimanere indipendente era difficile. Era possibile e lo abbiamo dimostrato sia con il Tribunale sull’ex Jugoslavia che con quello sul Ruanda. Non bisogna mai mollare, bisogna sempre insistere. E quando proprio eravamo in una situazione difficile e pensavamo di non poterne uscirne più, facevamo una conferenza stampa, sempre ben collocata perché avevamo il supporto della stampa, dei media. Se sentivamo odore di corruzione o di pressione, qualsiasi cosa, noi uscivamo con trasparenza e con la verità e grazie a questo siamo riusciti a sormontare gli ostacoli, che erano inevitabili perché erano ostacoli causati dalla politica dei vari Stati.
Che ruolo hanno o possono avere i media rispetto al sostegno ai Tribunali Internazionali, soprattutto in un momento in cui la concentrazione in mano di pochi di tanti mezzi di comunicazione li rende meno indipendenti?
È vero che l’influenza dei media non è più così forte come lo era quando ho cominciato io. Si vede che allora erano gli inizi e la situazione era un po’ diversa, ma io credo che ci sia ancora molta indipendenza della stampa, dei giornalisti. Perché poi, alla fin fine, dipende dalla persona. Come dipende dalla persona dal lato del procuratore e di coloro che lavorano per riuscire a mettere assieme degli atti di accusa, la stessa cosa vale per la stampa. È purtroppo anche vero che alla fine un po’ ci si abitua a leggere questi orrori che succedono nel mondo, per cui c’è una certa assuefazione, però io credo che, nonostante tutto, la stampa abbia conservato questa sua indipendenza e questa sua volontà di trasparenza. Naturalmente, nella vastità di quello che esiste oggi è difficile sentire questa indipendenza, ma c’è.
Quanto è coinvolta la società civile e che appoggio dà a questi Tribunali internazionali?
La società civile, praticamente, è lo specchio di quello che è e dev’esser la volontà politica degli Stati, a parte naturalmente tutti quelli che sono davvero indipendenti dalla autorità di governo. Io andavo a fare delle conferenze con la società civile, ossia il popolo, quelli che si interessano a questo problema, ti seguono e ti aiutano. Però, poi, sono coloro che hanno il potere che possono veramente aiutare o agire, affinché si possa veramente ottenere giustizia per le vittime. La società civile, la popolazione, è senz’altro aperta a questi problemi, solo che non ha il potere di aiutare veramente, perché questo dipende dai vari governi e dagli Stati. Sono loro che bisogna convincere, e noi abbiamo cercato di farlo perché il procuratore dei Tribunali Internazionali non è solo procuratore, è anche diplomatico e deve incontrare tutti i potenti di questa terra per far sì che capiscano l’importanza della giustizia internazionale. Non ci siamo riusciti. O meglio, ci siamo riusciti abbastanza con il Tribunale sull’ex Iugoslavia e in parte anche con quello sul Ruanda. Ma per il resto non siamo riusciti, e non solo noi. Faccio un solo esempio: oggi la ICC deve nominare un nuovo procuratore. A fine giugno 2020 gli Stati hanno mandato una lista di candidati: è una delusione totale. Non ce n’è uno che abbia esperienza a livello internazionale, non ce n’è uno che abbia esperienza di diritto internazionale.
Allora mi chiedo, che vogliamo fare? Vogliamo distruggere questo tribunale? Vogliamo che non funzioni? Se non si nomina un procuratore che sappia fare il suo mestiere, come in tutti i settori, significa che abbiamo deciso di far morire questo tribunale.
C’è una sola Corte permanente, che è già piena di difficoltà. Leggere questa lista mi fa venire il dubbio che non la vogliano davvero mantenere, perché questa lista attesta che non si vuole un’istituzione forte che possa contribuire non solo alla giustizia per le vittime, ma anche alla pace e alla democrazia nel mondo.
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* Dal 18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020, “Il virus contro i diritti”, a cura di Associazione Società INformazione.
L’edizione italiana, Ediesse-Futura editore, può essere acquistata anche online: qui, in ebook qui
L’edizione internazionale, in lingua inglese, Milieu edizioni, può essere acquistata qui in cartaceo e qui in ebook
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