Ucraina. Fronda realista negli USA: una guerra lunga è senza «vittoria»

Ucraina. Fronda realista negli USA: una guerra lunga è senza «vittoria»

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Armi a Kiev finché sarà necessario, insiste Biden. Per Foreign Affairs non è la soluzione: prevalere sul campo è impossibile, lo dimostrano questi 15 mesi di combattimenti. Urge una fine negoziata del conflitto per fasi intermedie: così che i nemici possano convivere anche senza fare la pace

 

«Credo fermamente che disporremo dei fondi necessari per assistere l’Ucraina per tutto il tempo che sarà necessario». Così si è espresso Joe Biden nell’incontro avuto con Rishi Sunak alla Casa bianca, dove i due leader hanno riaffermato l’impegno a sostenere l’Ucraina fino alla «vittoria».

La nota formula stavolta è stata impiegata anche per dissipare lo scetticismo sul finanziamento della guerra che emana soprattutto da parte repubblicana. Una crescente minoranza, soprattutto sul fianco destro, è sempre più esplicita a riguardo, compresi diversi candidati presidenziali GOP che stanno collaudando posture isolazioniste, anche come posizioni elettorali.

Intanto, mentre esponenti dell’apparato militare, come David Petraeus sul Washington Post, guidano il tifo per la controffensiva ucraina, torna a farsi sentire la fazione realista che dai think-tank specializzati smorza i trionfalismi e invita al pragmatismo.

«UNA GUERRA NON-VINCIBILE» è il titolo, ad esempio, dell’editoriale apparso su Foreign Affairs, organo del Council of Foreign Affairs, a firma di Samuel Charap. L’articolo sostiene la necessità e l’inevitabilità di una fine negoziata alla guerra ucraina, ribadendo l’urgenza di «iniziare un dialogo» al fine di visualizzare una conclusione, o quantomeno «congelare» un conflitto che in caso contrario promette di prolungarsi per anni a venire. Secondo Charap, senior political scientist presso la Rand Corporation, un tale scenario comporta rischi «esistenziali» per l’equilibrio geopolitico globale.

Nel suo articolo l’autore sostiene che l’invasione russa costituì «per gli Usa e i suoi alleati, un momento di chiarezza morale», nell’assistere la nazione aggredita ma, aggiunge, all’urgenza di quella missione non si è mai accompagnata una corrispondente chiarezza sull’obbiettivo finale. A questo proposito cita l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che già nel giugno dell’anno scorso ammetteva: «Più che sull’obbiettivo finale, siamo concentrati sugli obbiettivi di oggi, domani e della prossima settimana per rafforzare al mano degli Ucraini, prima sul campo e successivamente ad un eventuale tavolo negoziale».

ORA CHE QUINDICI MESI di combattimenti hanno ampiamente dimostrato che nessuna delle parti è in grado, seppur con assistenza esterna, di prevalere sul campo, scrive Charap, è ora che gli Stati uniti accelerino l’attenzione verso un’indispensabile soluzione a un conflitto che non potrà essere risolto con la forza delle armi. L’articolo cita statistiche secondo cui le guerre fra stati sovrani raramente vengono decise dalla conquista territoriale di una delle parti. Nel caso ucraino, non esiste un posizionamento del confine, o uno specifico numero di chilometri quadrati controllati dalle parti, che le indurrebbero a porre fine al conflitto.

L’ESITO PIÙ PROBABILE è quindi la stasi di una guerra permanente e permanentemente destabilizzante, non solo per i belligeranti diretti. Secondo uno studio del Center for Strategic and International Studies, mostra, in base a dati raccolti a partire dal 1946, che il 26% delle guerre fra stati si concludono dopo il primo mese, il 25% entro un anno.

Ma quando si estendono oltre il primo anno, tendono in media a durare dieci anni. Un conflitto ucraino di tale durata significherebbe mantenere l’attuale «inaccettabile» rischio di uno scontro diretto Russia-NATO o dell’utilizzo di armi nucleari. I costi economici ed umani per entrambi i paesi, inoltre, sarebbero disastrosi e «generazionali» in particolare per l’Ucraina.

Urge quindi rendere prioritario l’inizio di un dialogo attraverso dispositivi diplomatici adatti – Charap porta l’esempio del gruppo di contatto informale fra le parti stabilito durante la guerra balcanica – ad aprire un canale di comunicazione fra Russia, Ucraina, Usa e alleati. Questo a prescindere dall’esito eventuale di una controffensiva ucraina che anche in caso di parziale (e non assicurato) successo, non modificherebbe le dinamiche fondamentali della contesa.

In qualunque modo sviluppi la linea del fronte, infatti, entrambe le parti rimarranno in grado di tenere sotto minaccia il territorio nemico. Anche l’improbabile ipotesi di una «vittoria territoriale» che riporti i confini allo stato pre-2014 non sarebbe quindi sufficiente a porre fine alle ostilità.

L’EDITORIALE SUGGERISCE dunque di mettere da parte la questione della legittimità delle rivendicazioni e di operare pragmaticamente per la fine di una guerra, contemplando le «soluzioni plausibili in circostanze molto meno che ideali», che al momento precludono cioè un vero e proprio trattato di pace. È utile, scrive invece Charap, accettare che i paesi rimarranno nemici per potenzialmente molti anni anche dopo la cessazione delle ostilità.

Charap conclude che la soluzione non può che essere di tipo armistiziale: una cessazione durevole del fuoco sullo stampo di quello coreano, «l’esito insoddisfacente che più plausibilmente porrà fine a questa guerra».
Per raggiungere questo obbiettivo (Charap ricorda che in Corea ci vollero due anni e più di 500 incontri), occorre puntare su ben definiti obbiettivi «intermedi», quali zone demilitarizzate, garanti terzi, forze di pace o commissioni per la risoluzione delle dispute, meccanismi atti cioè a rafforzare la struttura di «reciprocità e deterrenza in grado di permettere a nemici giurati di convivere pur non avendo risolto le loro fondamentali divergenze».

STA AGLI STATI UNITI promuovere questo percorso, ricoprendo un ruolo simile a quello avuto come garante della pace egizio-israeliana. (Charap suggerisce una garanzia occidentale della sicurezza ucraina che non giunga all’ammissione alla Nato). Solo così si potrà raggiungere se non la pace, una stabilità di respiro storico simile a quella che, nei decenni, ha permesso lo sviluppo della Corea del sud e la riunificazione della Germania.

* Fonte/autore: Luca Celada, il manifesto



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