Jumana Shahin non ha saputo subito della morte del collega. «Le comunicazioni sono difficili anche per noi giornalisti, non c’è Internet. Usiamo i cellulari ma le linee sono molto precarie», ci dice. Jumana è molto stanca, lo si avverte subito ascoltandola. Più di 15 giorni di raid aerei l’hanno sfibrata. Sembra un’altra persona rispetto aalla giovane reporter sorridente e piena di energie protagonista assieme a Sadi, Adam e Riccardo, studente di medicina dell’Università di Siena che fa l’Erasmus nelle strutture sanitarie della Striscia, di Erasmus in Gaza, di Chiara Avesani e Matteo DelBò, un film documentario stupendo che un giorno racconterà Gaza a chi non l’ha conosciuta prima della devastante offensiva militare israeliana in corso.

Jumana ci spiega quanto è difficile fare il lavoro di giornalista e quanto è facile morire svolgendolo. «La mancanza di elettricità e della connessione a Internet rende difficile documentare e condividere informazioni con il mondo esterno», dice. «Inoltre, la costante minaccia dei bombardamenti israeliani crea un senso di continua incertezza, per la nostra stessa vita. Non mi avventuro più fuori perché rischio la morte ma so bene che la mia vita è in pericolo anche stando a casa». Quando finirà la guerra «e non so quando finirà» sottolinea Jumana «non so come potremo affrontare l’immensa distruzione, il dolore, la tristezza e la rabbia. Il sangue, i corpi straziati a cui assistiamo quotidianamente sono impressi nella nostra mente e lo saranno per sempre».

Gli attacchi aerei nella notte tra domenica e lunedì sono stati centinaia. Un martellamento incessante. L’ha detto anche il portavoce militare israeliano. «Abbiamo preso di mira obiettivi terroristici di Hamas» ha detto. Sul terreno ci sono i civili palestinesi che raccontano di strutture di Hamas distrutte ma con orrore di bombe cadute indiscriminatamente su case e palazzi. Specie quelli più alti, che sarebbero da ridurre in macerie per facilitare il compito dei soldati quando avrà inizio l’invasione di terra: dagli edifici più elevati, Hamas avrebbe la possibilità di lanciare droni e controllarli meglio che a terra.

Di ciò due milioni e di palestinesi non sanno nulla, sono persone qualsiasi, uomini e donne, bambini che fino a due settimane fa andavano a scuola o giocavano a pallone nelle strade polverose della Striscia. Più di 5.000 palestinesi sono morti per le esplosioni e il crollo di case ed edifici soprattutto nel nord, a Jabaliya, Beit Lahiya, Beit Hanoun, a Gaza city e in altre città e villaggi. 5.087 per la precisione di cui 2.055 bambini e 1.156 donne, secondo quanto riferiva ieri il ministero della sanità a Gaza. Ministero che i giornalisti stranieri «non devono seguire» afferma Israele, perché «di Hamas» quindi «non credibile».

Il portavoce militare Daniel Hagari ripete che «il carburante non entrerà a Gaza». E non entrerà se Israele non lo vorrà in futuro. Ieri sono passati dal valico di Rafah altri 15 camion di aiuti umanitari. Prima sono andati a Kerem Shalom per i controlli israeliani, poi sono entrati nella Striscia dove hanno portato soprattutto rifornimenti per gli ospedali in una «situazione disperata», avvertono più fonti indipendenti. Il dottor Murad, che dall’ospedale Shifa di Gaza city è stato trasferito a quello di Al Aqsa, a sud, per aiutare l’assistenza della massa di feriti gravi, ci riferisce che «il numero di pazienti supera di tre volte la capacità dell’ospedale» e che la mancanza di spazio «ha costretto molti pazienti addirittura a sdraiarsi sul pavimento».  L’enorme numero di persone ferite che arrivano ogni giorno all’Al Aqsa rende impossibile registrarle. «Non sappiamo come muoverci» aggiunge «le risorse sono insufficienti, abbiamo poche medicine e l’elettricità è intermittente. Ci sentiamo impotenti». Da Gaza denunciano bombardamenti a poche decine di metri dall’ospedale Al Quds. Una bomba è caduta, lo ha scritto l’Associated Press, a 200 metri dalla sede dell’Onu a Rafah.

Mentre si rincorrono le indiscrezioni sui tempi e strategia dell’invasione di terra israeliana frenata, si legge, dagli Usa per permettere i negoziati mediati dal Qatar per la liberazione almeno di una parte dei 222 ostaggi nella mani di Hamas, Già settemila i palestinesi, forse di più, sono finiti nella tendopoli allestita dall’Onu. Dentro Gaza. Nessun palestinese dice di voler andar via dalla sua terra, ma nessuno sa cosa accadrà sotto l’urto dell’offensiva militare israeliana. Allo stesso tempo, centinaia forse migliaia di persone che nei giorni scorsi erano fuggite, ubbidendo all’ordine di evacuazione immediata lanciato dall’esercito israeliano, stanno tornando nel nord di Gaza. «Preferiamo morire nelle nostre case» dicono. Le loro abitazioni molto spesso non ci sono più. Ocha (Affari umanitari dell’Onu) ha comunicato che i bombardamenti israeliani hanno distrutto interi quartieri a Beit Hanoun, Beit Lahia, Al Shujaiya, l’area tra Gaza city e il campo di Al Shati e Abasan Al-Kabira.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto