Non solo Gaza. Il crimine della guerra e la comoda etichetta del terrorismo

Non solo Gaza. Il crimine della guerra e la comoda etichetta del terrorismo

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Il ‘crimine del silenzio’ era stato indicato, da Bertrand Russell e Sartre, in un’altra era di civiltà, come quello commesso, e intollerabile, dagli Stati. Kurdi e palestinesi rappresentano oggi l’attualità di questo crimine trasversale

 

Obiettivo di questo contributo è quello di ri-proporre all’attenzione la esacerbazione del ‘conflitto’ (che è di fatto un processo di genocidio in corso…) tra la Turchia ed il popolo Kurdo, specificamente è più direttamente in una delle sue espressioni più rilevanti e democraticamente esemplari.

È difficile, e certo sarà considerato come ingiustificato per la grande maggioranza del mondo dell’informazione-cronaca, proporre una distrazione da quanto sta succedendo nello scenario Gaza-Hamas-Israele. Guerra, possibilmente con definitivo sterminio del nemico, è il nome ufficiale assegnato da parte israeliana alla unica ‘nuova’ evidenza, di una tragicità assoluta, divenuta centrale nello scenario internazionale dal venerdì 6/10 (mettendo in sordina nella cronaca perfino la guerra contro l’invasore da parte di una Ucraina eretta a rappresentante unica della civiltà occidentale). Un popolo sottoposto in modo sistematico ad una negazione di identità, di dignità, di vita, da un tempo immemorabile, nella piena inerzia della comunità internazionale, anche di fronte ai rapporti delle Nazioni Unite (Oslo 1993 sembra preistoria) ha ‘sorpreso’ anche la imbattibile intelligence israeliana, ed ha preso le armi in difesa di terra, case, diritti, futuro. Si può solo, anche qui, chiedere (illudersi?) che la comunità internazionale si schieri non:

-‘per’ una inesistente democrazia esemplare (è quanto ha detto la società israeliana per mesi);

– ‘contro’ dei terroristi, cancellando la storia durissima di tutto un popolo;

ma per un cessate il fuoco o, e soprattutto per restituire cittadinanza alla logica-pratica di una pace non asimmetrica, da costruire, non da dichiarare, e della cui assenza-impronunciabilità siamo responsabili.

Anche la situazione da cui parte questa riflessione ha una storia lunga. Come quella tra Israele e Palestina, nasce da tempi di post-guerra: con vincitori europei/occidentali che segnano i confini degli Stati ignorandone i popoli, la loro storia, civiltà, geografia, vita. È di questo 2023 il centenario del Trattato di Losanna che, tra le tante decisioni, assegnava al popolo Kurdo un destino di divisione funzionale a garantirne la inesistenza politica con la trasformazione in ‘minoranze’ senza diritti in Stati tra loro in competizione e/ o nemici. Turchia, Iran, Iraq, Siria. Impossibile, e qui inutile, ricordare nel dettaglio anche solo la storia recente di questi stati, e, al loro interno, delle ‘minoranze’. Il destino recente della minoranza kurda interna alla Turchia (una dittatura ‘esemplare’: per la coerenza della sua repressione radicale di tutte le forme di opposizione o anche solo di ‘diversità’ di opinione, cultura, religione…) è stato oggetto anche di una sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli che ha documentato, con tutto il rigore di un giudizio espresso secondo le categorie del diritto internazionale, una responsabilità diretta di Erdogan per crimini di guerra e crimini contro l’umanità (vedi sentenza….). Anche il silenzio della comunità e del diritto internazionali sono stati esemplari. Erdogan si è anzi trasformato in uno degli interlocutori più accreditati (e finanziati) dell’Unione Europea su tutte le questioni del Mediterraneo (e non solo: per esempio armi e guerre ‘regionali’).

Tutti ricordiamo, sempre negli anni recenti, la tragica realtà —incredibile per velocità di diffusione, ferocia praticate ed esibita, risonanza europea e non solo —dello ‘Stato Islamico’: tutti si dichiaravano contro, ma senza esitare di fatto, a favorire in tutti i modi, uno dei primi attori: la Turchia era in prima fila, nella più perfetta ambiguità politica, militare, religiosa. L’unica cosa certa di quella vicenda che appare surreale (sono ancora migliaia dei prigionieri, anche moltissimi ‘occidentali’ nel nulla di campi di prigionia) è il come ed il dove della sconfitta e della fine (almeno in quell’area) dello Stato islamico. Le popolazioni kurde del Nord Est della Siria (NES), pur aiutate dall’aviazione degli ‘alleati’, sconfissero sul terreno, con perdite durissime ma riuscendo anche a salvare da un genocidio finale un’altra minoranza, i cristiani azeri, e costrinsero allo scioglimento -fuga l’esercito dello stato islamico. La speranza ‘ovvia’ era che questa ‘evoluzione’ militare (resa possibile da una realtà di coesione e di militanza della popolazione kurda, divenuta nota come Rojava e celebrata internazionalmente, per il ruolo assolutamente protagonista anche nella difesa militare delle donne) potesse tradursi in una novità politica di riconoscimento del diritto ad una autodeterminazione nel continuare un progetto universalmente qualificato come di ‘democrazia sostanziale’, profondamente innovativa e sostenibile per quelle regioni.

La storia di quelle regioni tanto critiche e che vede la presenza, nelle più diverse e contraddittorie forme, di tutti i ‘poteri’ che contano, militari, energetici, geopolitici (dagli USA, alla Russia, all’Arabia Saudita, all’Iran, alla Turchia, alla Francia con o senza la UE…) è espressione perfetta della situazione mondiale: i popoli non esistono, se non come ‘variabili’ da usare, controllare, scambiare su un mercato di equilibri. La esemplarità democratica del Rojava ha svolto il suo ruolo di ‘contenitore’ dello Stato Islamico, che a sua volta era stato giudicato troppo poco controllabile e disturbatore.  Si può mettere da parte. Le sue pretese di autonomia e la sua capacità di offrire un modello di sviluppo diventano pericolose, o almeno confondenti per tutti paesi dell’area. Non c’è posto per progetti che immaginano almeno un pezzo di mondo che ha liberato da tante paure come luogo di sperimentazione condivisa di diritti umani e dei popoli.

Dopo un periodo (ormai anni…) di intensità variabile di bombardamenti e di assassini mirati che hanno avuto come protagonista (con il permesso connivente della Siria, dittatura competitiva per anzianità e repressione) la Turchia (ed il silenzio della comunità internazionale: con quante ‘vittime’ è difficile fare i conti: anche perché gli assassini sono ‘mirati’, qualitativi più che quantitativi: le uccisioni di gruppo e di comunità passano per ‘incidenti’) i tempi sembrano essere quelli di una vigilia di cui si può solo sapere che si concluderà con costi enormi, umani e di civiltà.

La migliore sintesi della situazione attuale è proposta nei primi giorni di ottobre: in risposta ad un ‘attentato’al Ministero degli interni di Ankara (non rivendicato, né attribuibile, negato tassativamente come originato dal suo territorio dalla Siria, sostanzialmente senza conseguenze), inizia un programma di bombardamenti nei territori della Autonomous Administration del Nord Est della Siria (AANES, 5 milioni di abitanti, tra cui centinaia di migliaia di rifugiati dai bombardamenti precedenti più allargati ad altre aree kurde), mentre all’interno della Turchia si rinnova l’ondata di arresti arbitrari di centinaia di rappresentanti politici e culturali della popolazione kurda. La definizione della strategia ufficiale è riassunta dal ministro degli Esteri turco il 4 ottobre: tutte le infrastrutture delle città e comunità nell’area di Rojava e del NES (scuole, ospedali,dighe, impianti elettrici, depositi alimentari …) devono essere considerate ‘obiettivi legittimi’ di operazioni militari. Le dichiarazioni di Erdogan, nei giorni precedenti l’attacco ad Ankara sopra ricordato, non potevano essere più chiare ed anticipatrici: la decisione di invadere Rojava ed obbligare con massacri le popolazioni kurde a disperdersi e lasciare i territori è già stata presa: deve semplicemente essere preparata a dovere, e tener conto dei momenti-contesti geopolitici e regionali.

La posizione dei rappresentanti di Rojava (riassunta nei documenti del Kurdish National Congress del 5 ottobre) è quella di non modificare in nulla il loro esperimento di democrazia. Sono i giorni che ricordano anche l’imprigionamento-isolamento dell’ ispiratore della resistenza-progettualità di Rojava Ocalan (…il peso della responsabilità italiana nella sua consegna al governo turco per una prigionia-isolamento, che include anche la incomunicabilità con avvocati e familiari negli ultimi tre anni non è irrilevante): ma il progetto ha preso e documentato la praticabilità di ulteriori forme originali di espressione che sono ormai oggetto di una documentazione a livello culturale internazionale. Solo la comunità degli Stati ‘ignora’ di fatto, contro tutte le testimonianze più autorevoli, una ‘evidenza al di là di qualsiasi dubbio’, per evocare anche il linguaggio della obbligatorietà giuridica.

Il ‘crimine del silenzio’ era stato indicato, da Bertrand Russell e Sartre, in un’altra era di civiltà, come quello commesso, e intollerabile, dagli Stati (il loro bersaglio primo era De Gaulle, che proibì di tenere in Francia il Tribunale sulla guerra degli USA contro il Vietnam) che semplicemente obbediscono ai loro equilibri e fanno dei popoli le vittime. I Kurdi rappresentano oggi una situazione esemplare della attualità di questo crimine trasversale: per quello che hanno subito e per quanto li minaccia. Non sono i soli, purtroppo. I Palestinesi sono stati quelli che per primi li hanno seguiti, dopo la seconda guerra mondiale, nel destino di espulsione da una storia dalla parte degli Stati che aveva già negato il genocidio degli Armeni. È la loro storia che si sta esprimendo ancora in questi giorni. Il crimine del silenzio non è mai stato considerato una cosa seria dal diritto internazionale: è troppo comodo mantenerlo come categoria ‘morale’, emotiva. Nel diritto ‘normale’ il silenzio, come categoria di responsabilità ha un peso: omissione di soccorso, o assenza colpevole di prevenzione, o cancellazione-negazione di prove. Ma è dato per acquisito che tutto ciò non riguarda Stati e Popoli: tanto più quando gli Stati (meglio: alcuni di loro) pretendono di dare ai popoli, a tutta la loro storia, nomi che li fanno scomparire: per esempio come ‘terroristi’. È un termine molto caro ad Erdogan per dare coerenza trasversale alle sue misure repressive. È il termine più usato dai cronisti più chiàcchierini di questi giorni per chi ha attaccato di sorpresa Israele. È usato da Modi per i popoli del Kashmir e non solo. È applicato in questi giorni, in Germania, agli Eelam Tamil dello Sri Lanka che cercano di inviare fondi in patria per i sopravvissuti ad un genocidio documentato come prodotto dalle politiche di USA ed UK, con il silenzio della UE.

Con la ‘guerra’ di Gaza, il processo che mira a cancellare la sperimentazione di democrazia di Rojava (al di là delle loro specifiche tragicità per le vite cancellate e per la semina di violenza ed odio nella comunità internazionale) è parte della domanda oggi di fondo e trasversale a tanti scenari: quale può essere la tenuta di una società-civiltà che legittima le narrazioni e le decisioni del presente attraverso la cancellazione (e la sua versione più perversa: la manipolazione e trasformazione in espulsione) della storia dei popoli reali?

 

* Segretario generale Tribunale Permanente dei Popoli



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