Cadaveri decomposti in strada, Guterres: «Mai tanta fame come a Gaza»

Cadaveri decomposti in strada, Guterres: «Mai tanta fame come a Gaza»

Loading

Palestinesi brutalizzati da vivi e da morti. Uccisi altri due giornalisti: sono 100 dal 7 ottobre. Distrutti gli archivi civili vecchi di un secolo. E l’Onu accusa: civili giustiziati davanti alle loro famiglie

 

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non sa più come dirlo. Ieri ci ha riprovato su X: «Quattro delle cinque persone più affamate del pianeta sono a Gaza». Poi ha aggiunto un link all’ultimo comunicato del World Food Programme, agenzia che da settimane lancia allarmi che non sembrano indignare granché: «Il 26% dei gazawi ha esaurito le riserve alimentari. Nessuno a Gaza è al sicuro dalla fame».

I dati del Wfp dicono che il 90% della popolazione non mangia tutti i giorni, che il 50% è malnutrito e che gli aiuti in ingresso sono sufficienti solo a un palestinese su dieci. Le immagini raccontano di assalti ai pochi camion che riescono a passare, di persone che si affollano intorno a pentole di zuppa di fagioli con piccole padelle o contenitori di plastica, per averne un po’.

Immagini impressionanti, specchio di una politica dichiarata da esponenti del governo israeliano: la fame come arma di guerra, quello di cui giustamente è stata accusata la Russia in Ucraina. Nel campo di Jabaliya un raid aereo ha distrutto un impianto di desalinizzazione dell’acqua, fondamentali per la Striscia che da anni usa l’acqua di mare per tantissime attività quotidiane, per cucinare e lavarsi.

Si muore di fame e si muore di bombe, ieri in 24 ore sono state almeno 201 le vittime (dal 7 ottobre il bilancio, probabilmente al ribasso, è di 20.258 uccisi). Tra loro, ieri, 76 membri della stessa famiglia, la Mughrabi, una delle centinaia letteralmente cancellate dai registri anagrafici: 16 erano bambini e uno, Issam, lavorava per il Development Programme dell’Onu.

TRA LORO ANCHE il centesimo giornalista palestinese ammazzato in 78 giorni di offensiva: Mohammed Abu Hwaidi è stato centrato da un cecchino a est di Gaza City. Poche ore prima era stato ucciso il reporter Muhammed Khalifa, nel bombardamento della sua casa nel campo di Nuseirat.

Anche per loro ieri Reporter senza Frontiere ha presentato la sua seconda denuncia alla Corte penale internazionale per crimini di guerra commessi da Israele contro i giornalisti della Striscia: secondo l’organizzazione, molti di loro sono stati volontariamente presi di mira dall’esercito israeliano.

C’è anche la denuncia dell’agenzia Onu Ohchr: il 19 dicembre i soldati sono entrati nel palazzo Al Awda a Remal e hanno giustiziato 11 uomini di fronte alle loro famiglie. A morire, secondo il portavoce di Hamas, Abu Obeida, sarebbero stati anche cinque dei 129 ostaggi israeliani ancora in mano al movimento islamista: Hamas dice di aver perso i contatti con il gruppo responsabile della prigionia dei cinque dopo un bombardamento.

È invece Tel Aviv a dare conto dell’uccisione – in un attacco a Rafah – di Hassan Atrash, considerato dallo Shin Bet responsabile della costruzione delle armi e del loro contrabbando fuori dalla Striscia. Hamas non commenta. Ieri da Gaza è stato annunciato anche il totale collasso dei servizi municipali. Quelli che si occupano della vita civile, acqua, elettricità, raccolta dei rifiuti. Ma anche di archivi: con il bombardamento della sede principale delle municipalità, in Piazza Palestina a Gaza City, sono andati persi archivi e documenti vecchi di un secolo, quelli che erano sopravvissuti alla Nakba del 1948.

ORMAI NELLA STRISCIA non funziona più niente, un fazzoletto di terra reso invivibile per gli anni a venire. Non funziona il sistema sanitario né la rete cimiteriale. I corpi marciscono per strada: succede a Beit Lahiya dove la protezione civile ieri ha parlato di «decine di cadaveri in decomposizione…molti giustiziati per strada e poi dilaniati dai cani».

Gaza è stata disumanizzata a ogni livello possibile, da viva e da morta.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



Related Articles

DALLA TURCHIA AL BRASILE IL FILO CHE UNISCE LA PROTESTA

Loading

In principio fu la Tunisia, poi il Cile e la Turchia. E ora il Brasile. Che cos’hanno in comune le proteste di piazza in Paesi così diversi tra loro?Varie cose… e tutte sorprendenti.

Le crisi riunite a Ventotene

Loading

“Nessuna delle tre emergenze europee può infatti essere affrontata e risolta con gli strumenti politici, culturali e istituzionali dei vecchi Stati-nazione, perché nascono tutte dalla mondializzazione che impone risposte globali a problemi universali”

Georgia. Rivolta antirussa a Tiblisi, già 240 i feriti

Loading

Georgia. Le manifestazioni intendono impedire la rinascita di un dialogo tra i due Paesi ex-sovietici

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment