Ucraina. Attacco ai gasdotti nel Baltico, cresce il rischio nucleare
Bloccare le forniture di gas all’Europa significherebbe aprire già da ora una pesante crisi energetica in quelli che il Cremlino considera paesi ostili, se non nemici, evitando qualsiasi confronto sul piano politico o giuridico
Il 22 febbraio il governo tedesco ha comunicato ai russi l’intenzione di sospendere il lungo procedimento burocratico necessario perché il gasdotto Nord Stream II entrasse in funzione. Il giorno seguente, a Washington, il capo della Casa Bianca, Joe Biden, ha firmato un documento con pesanti sanzioni al consorzio che lo aveva costruito. «Ora Nord Stream è soltanto un tubo di ferro in fondo al mare», ha detto subito dopo un funzionario della sua Amministrazione ai giornalisti che gli chiedevano un commento. Poche ore più tardi l’esercito russo ha rotto l’assedio ai confini che durava da mesi.
Sia chiaro: Putin con ogni probabilità aveva già assunto quella decisione. La settimana prima la Duma aveva affrontato la possibilità di riconoscere le due regioni ribelli di Donetsk e di Lugansk come stati indipendenti, e lui stesso aveva riunito al Cremlino il Consiglio di sicurezza per un lungo confronto sulla questione trasmesso quasi per intero alla tv di stato. A volte, però, esistono segnali che separano una fase dall’altra. Oggi sembra di essere tornati esattamente a quel punto.
Gli elementi sono ancora pochi per ricostruire con esattezza quel che è accaduto lunedì al largo dell’isola danese di Bornholm, in pieno Mar Baltico. L’unica certezza è che Nord Stream e Nord Stream II sono stati distrutti da due potenti esplosioni, la seconda delle quali, secondo gli esperti dell’Università di Uppsala, aveva un potenziale pari a cento chili di dinamite.
Un attacco in piena regola, un sabotaggio che diversi governi potrebbero considerare come un atto di guerra.
Ogni passo successivo corrisponde a una ipotesi. La Russia ha certamente le capacità militari per portare a termine questo genere di azione. La superiorità della sua flotta di sottomarini nel Baltico è cosa nota. Bloccare le forniture di gas all’Europa significherebbe aprire già da ora una pesante crisi energetica in quelli che il Cremlino considera paesi ostili, se non nemici, evitando qualsiasi confronto sul piano politico o giuridico.
Gli eserciti della Nato non hanno, tuttavia, nulla da invidiare a quello russo. Distruggere i due gasdotti vorrebbe dire chiudere con la forza e in modo definitivo uno dei più grandi equivoci ancora in piedi dentro all’Alleanza, i cui effetti condizionano anche gli equilibri della guerra in Ucraina, ovvero l’asse dell’energia fra Berlino e Mosca.
Insomma, a febbraio, alla vigilia dell’invasione, in Europa e negli Stati uniti si discuteva la fine politica del progetto Nord Stream. Ora siamo passati dalle parole ai fatti. È un segno di cui tenere conto.
Anche la situazione sul terreno, in Ucraina, è per molti versi simile. Allora la Russia era nel bel mezzo del pomposo processo istituzionale che avrebbe portato Putin a riconoscere Donetsk e Lugansk come due Repubbliche indipendenti, stringendo poi con i loro leader accordi di cooperazione militare.
Eventi simili si verificano adesso. I russi hanno concluso ieri i loro referendum in quattro province occupate dell’Ucraina, oltre a Donetsk e Lugansk ci sono quelle di Zaporizhzhia e Kherson, referendum che secondo le autorità locali sono terminati con il sostegno di massa alla richiesta di integrazione. Putin sarà in Parlamento dopodomani. Molti si aspettano l’annuncio di nuovi confini. In un certo senso questi due fattori, da una parte l’espansione territoriale della Russia in Ucraina, dall’altra il blocco dei canali energetici verso l’Europa, convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta.
È naturale chiedersi quale sarà la prossima fase. I rischi oggi sono se possibile ancora più elevati rispetto a febbraio. Americani e britannici sembrano sempre più coinvolti nelle operazioni di guerra in Ucraina. Da Mosca la minaccia del ricorso all’arsenale atomico è ormai quotidiana. Ieri è stato l’ex premier ed ex presidente Dmitri Medvedev a ripetere che la Russia ha tutto il diritto di usare «alcune delle sue armi più terribili contro il regime ucraino», nel caso in questo lanci «un’aggressione su larga scala». Lo spazio per la diplomazia sembra minimo. Tutti i fattori si allineano sul risultato più pericoloso.
* Fonte/autore: Luigi De Biase, il manifesto
ph by Berria egunkaria, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
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