Ucraina. Zelensky celebra l’indipendenza e punta «Alla vittoria»

Ucraina. Zelensky celebra l’indipendenza e punta «Alla vittoria»

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«L’Ucraina non molla»: Kiev festeggia tra rottami di carri russi L’esercito di Mosca rallenta, ma il conflitto ormai si autoalimenta

 

Il «tragico traguardo» è stato raggiunto: sei mesi dall’invasione russa in Ucraina e ancora nessuno spiraglio per la pace. Vuol dire ricordare tutto il dolore, i morti e la distruzione causata da una guerra che ha radici lontane, che si protrae a bassa intensità dal 2014, ma che è esplosa come le bombe che continuano a cadere incessantemente sui civili dal 24 febbraio di quest’anno.
IERI RICORREVA anche il trentennale dell’indipendenza dell’Ucraina. Zelensky ha caricato la data di un forte valore simbolico e ha dichiarato che se all’inizio delle ostilità gli ucraini chiedevano solo la pace, ora invece vogliono la vittoria. Ovvero: nessun negoziato sui territori occupati. Almeno per ora. Il presidente l’ha annunciato in un video registrato a piazza Maidan, il simbolo dell’Ucraina contemporanea. A poca distanza i mezzi militari russi distrutti, esposti sia a monito per le azioni future di Mosca sia per continuare a ripetere ai suoi e al mondo che «l’Ucraina non desiste».
QUESTA GUERRA ha obbligato il mondo a ricredersi su molte convinzioni che sembravano sigillate nel tempo. «È impensabile che uno stato ne invada un altro con i carrarmati e le armi convenzionali, oggi i conflitti si combattono con l’Intelligenza Artificiale» ad esempio, era uno di questi assiomi. Eppure abbiamo visto le trincee, a più di un secolo dalla «Grande Guerra» che costò la vita a milioni di persone. Così come siamo stati costretti a entrare nei rifugi sotterranei dove i civili aspettano la fine delle sirene antiaeree, come nella Seconda guerra mondiale.

Continuiamo ad ascoltare dichiarazioni come quella di ieri del ministro della difesa russo, Sergei Shoigu, che si ostina a chiamare l’invasione «operazione speciale», la quale «procede come previsto» anche se «abbiamo scelto di rallentare per ridurre al minimo le vittime civili». Un gesto di buona fede, insomma. Come quelli professati da un altro ministro di Mosca, Sergej Lavrov, quando le sue truppe hanno interrotto l’assedio di Kiev o si sono allontanate dall’Isola dei Serpenti. Salvo poi bombardare con missili balistici le città costiere del Mar Nero e la capitale. O dislocare le stesse truppe a Kharkiv e in Donbass.
CI SIAMO ABITUATI a considerare la guerra in Ucraina come il principale catalizzatore della fame nel mondo a causa dell’interruzione delle esportazioni di grano. Eppure, da quando l’accordo di Istanbul è entrato in vigore solo due navi sono partite cariche di grano destinato all’uso alimentare; le altre 25 trasportavano cereali utilizzati come mangime per gli animali o materie prime per l’industria chimica. Intanto la stagione incredibilmente secca, il rincaro dei fertilizzanti e l’aumento dei prezzi dei trasporti traghetta i paesi africani verso un nuovo lustro di indigenza alimentare.

Guardiamo con estrema apprensione alla crisi del gas, che oggi ha toccato un nuovo record a 300 dollari al megawattora. E infatti i nostri governanti si preoccupano per l’inverno e tentano di correre ai ripari: l’Italia rinsalda i rapporti con l’Azerbaijan di Alyev, in carica dal 2003 e succeduto a suo padre (in uno stato che nominalmente è una repubblica) e la Francia invia la legione straniera in Yemen. Tuttavia, il gas in Donbass manca da aprile e in quelle terre le stagioni fredde sono insostenibili, soprattutto se vivi in una cantina isolato dal resto del mondo.

Abbiamo dovuto ingoiare il volto rassicurante di leader autoritari che da questa guerra sembrano aver tratto nuova linfa. Il presidente turco Recep Erdogan ad esempio, è riuscito a non scontentare nessuno e a incassare i complimenti dei nemici e degli amici. Un ruolo assunto, senza dubbio, con il beneplacito della Nato, ma reso vacante dalla latitanza dell’Unione europea in quanto realtà istituzionale capace di proporsi come interlocutore serio e indipendente.
D’ALTRONDE, ci sono già gli Stati uniti e la Gran Bretagna che hanno fin da subito deciso che non c’era altra via alla soluzione del conflitto se non quella dello scontro militare fino all’annientamento di Putin. L’ex-premier britannico Boris Johnson ieri era a Kiev e Washington ha annunciato un nuovo pacchetto da 3 miliardi di aiuti. I servizi inglesi e i think tank americani hanno alimentato il marasma informativo globale diffondendo comunicati e analisi sul perché e il come la Russia non ha alcuna speranza di vincere. Al netto dei problemi logistici dell’esercito russo, non possiamo negare che ancora oggi ci sia una disparità di numeri e armamenti tra i due eserciti più che evidente. Certo, è Putin che ha invaso e ogni analisi che parli di resa incondizionata dell’Ucraina dimentica che dall’altra parte c’è chi definisce «errore storico» l’indipendenza di Kiev e arriva a negare l’esistenza di un popolo ucraino. Gli stessi che hanno dichiarato di voler intervenire in difesa delle popolazioni russofone del Donbass e che, invece, hanno subito esteso la guerra al resto del paese.
Quanto potrà durare ancora questa fase di muro contro muro? Gli analisti militari parlano già di «stallo» e di estensione del conflitto a tempo indeterminato. È molto difficile fare previsioni ma è importante capire che la guerra si autoalimenta, i morti chiamano altri morti, indipendentemente da chi abbia ammazzato per primo. È possibile affermare, senza essere accusati, che sei mesi di guerra sono già infinitamente troppi?

* Fonte/autore: Sabato Angieri, il manifesto



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