Estrattivismo. L’Amazzonia sull’orlo del collasso: agire ora

Estrattivismo. L’Amazzonia sull’orlo del collasso: agire ora

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Al via il vertice dei paesi sudamericani che vogliono provare a salvare la foresta in agonia. Un altro 5% di deforestazone e addio bioma. Le resistenze di Lula sullo stop all’estrattivismo, le critiche delle comunità indigene e dei movimenti popolari riuniti da venerdì scorso nei cosiddetti Dialoghi amazzonici

 

L’annuncio di un Vertice dell’Amazzonia con tutti i paesi della regione Lula lo aveva lanciato prima ancora di diventare presidente. Con un obiettivo preciso: impedire che la più grande foresta tropicale del pianeta raggiunga il punto di non ritorno. Un obiettivo per cui rimane pochissimo tempo: se ad oggi la regione ha già perso il 15% della sua copertura vegetale originaria, gli studi più recenti indicano che, oltre il 20% di deforestazione, il collasso del bioma sarebbe certo.

PER QUESTO assume così tanto rilievo il Vertice dell’Amazzonia che si apre oggi a Belém, capitale del (disboscato) Pará, con la presenza dei leader dei paesi aderenti alla Otca, l’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela), a cui si aggiungeranno i rappresentanti della Repubblica del Congo, della Repubblica democratica del Congo e dell’Indonesia, che ospitano rispettivamente le maggiori foreste dell’Africa e dell’Asia.

Era stato invitato anche Macron, in rappresentanza della Guyana Francese, ma ha declinato l’invito, mentre hanno confermato la loro presenza Luis Arce, Gustavo Petro e Nicolás Maduro, ben più consapevoli dell’importanza cruciale dell’evento, anche in vista tanto della Cop-28 che si terrà a fine anno negli Emirati arabi, quanto della Cop-30 in programma proprio a Belém nel 2025.

«SARÀ LA PRIMA VOLTA IN 45 ANNI che i presidenti dei paesi amazzonici si riuniranno con lo scopo di discutere politiche comuni», ha dichiarato Lula in conferenza stampa. Una grande occasione, insomma, per rilanciare l’Otca – attraverso per esempio la creazione di una “Interpol” amazzonica contro i crimini ambientali e di un Parlamento con carattere deliberativo – sulla base di alcuni obiettivi ambiziosi, a cominciare da quello, assunto da Lula già in campagna elettorale, della «deforestazione zero» entro il 2030.

Sugli effettivi risultati del vertice, tuttavia, non poche perplessità sono state espresse dai rappresentanti delle comunità indigene e dei movimenti popolari riuniti a Belém fin da venerdì scorso nel quadro dei cosiddetti Dialoghi amazzonici: più di 400 eventi inclusi dal governo nel programma ufficiale del vertice proprio allo scopo di ascoltare la società civile. Anche se sulla qualità di quell’ascolto è lecito nutrire dei dubbi: come ha denunciato Kleber Karipuna, coordinatore dell’Apib (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil), al summit dei presidenti è prevista la partecipazione di un solo leader indigeno in rappresentanza dei popoli di tutta l’Amazzonia.

Ciononostante, ben 52 organizzazioni hanno firmato un protocollo – che sarà presentato al vertice ufficiale – con misure di protezione della foresta e dei suoi popoli: l’azzeramento della deforestazione entro il 2030, l’espansione delle aree protette, il riconoscimento di tutti i territori indigeni e quilombolas, l’adozione di politiche di contrasto ai crimini ambientali, il lancio di un modello economico che faccia a meno di centrali idroelettriche, attività mineraria e petrolifera e agribusiness.

MA SE I CIRCA 10MILA esponenti della società civile accorsi a Belém hanno le idee chiare sul fatto che l’Amazzonia appartiene ai popoli che la abitano, dal lato governativo la situazione appare ben più complessa. Da una parte, infatti, mancherebbe il consenso tra i governi della regione sulla proposta brasiliana di fissare una meta di deforestazione zero comune a tutti i paesi mentre, dall’altra, il Brasile di Lula (e con lui, probabilmente, tutti gli altri) si oppone alla proposta di Gustavo Petro di evitare l’apertura di nuovi fronti di sfruttamento di petrolio e gas nella regione amazzonica.

E che il Brasile si opponga non è affatto una sorpresa: malgrado la decisione dell’Ibama di negare alla Petrobras l’autorizzazione ad avviare l’esplorazione petrolifera nella foce del Rio delle Amazzoni, il governo Lula non si è messo l’anima in pace. Lo studio dell’Ibama, ha spiegato il presidente, «non è definitivo, perché ha rilevato problemi tecnici che la Petrobras è in condizione di correggere».

UNA QUESTIONE, quella dei combustibili fossili, che acquista ancor più rilevanza a pochi giorni dallo storico referendum a cui saranno chiamati il 20 agosto i cittadini ecuadoriani per decidere se sospendere o meno lo sfruttamento petrolifero all’interno di quel paradiso di biodiversità che è il Parco nazionale Yasuní, nell’Amazzonia ecuadoriana.

Intanto, però, gli scienziati continuano a lanciare allarmi sempre più drammatici sui crescenti segnali di stress del bioma. Persino l’impegno ad azzerare la deforestazione entro il 2030 potrebbe rivelarsi tardivo e insufficiente: «Non basta smettere di disboscare, bisogna anche recuperare la foresta perduta», ha messo in guardia la chimica dell’atmosfera Luciana Gatti.

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto



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