Capitalismo digitale e paradisi fiscali

Capitalismo digitale e paradisi fiscali

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Il modello finanziario del capitalismo digitale contempla l’evasione e l’elusione fiscale. Negli anni della crisi c’è stato un aumento di questo fenomeno accompagnato dalla proliferazione dei paradisi fiscali. Nel gennaio 2016 è stata calcolata una somma pari a 1,9 trilioni di dollari in liquidi e investimenti solo dagli Stati Uniti. Le aziende del capitalismo digitale si inseriscono in questa migrazione mondiale dei capitali verso le piattaforme offshore: +25% dal 2008 al 2014 con una sottrazione di 7,6 trilioni di dollari. Nel loro caso l’evasione e l’elusione fiscale è particolarmente semplice visto che non trasferiscono all’estero intere fabbriche, ma la proprietà intellettuale.

Le riserve detenute offshore dagli “unicorni” sono enormi. È stato calcolato che solo Apple possiede 215,7 miliardi di dollari di riserve, il 92% ovvero oltre 200 miliardi sono detenuti all’estero. Microsoft possiede 102 miliardi di dollari di riserve e ne detiene all’estero il 93%, 96 miliardi; Google il 58% (42 su 73 miliardi) Amazon il 36% (18 su 49) e Facebook (1,8 su 15, l’11%) (Srnicek, 2016).

Sono cifre indicative che non tengono conto dell’indebitamento delle aziende, ma possono rendere l’idea: le riserve di Apple sono sufficienti per comprare insieme Samsung, Pfizer o Shell. Se decidesse di riportare questi capitali negli USA, l’azienda di Cupertino dovrebbe versare 59,2 miliardi di dollari. Una commissione del Senato ha stabilito che solo nel 2012 Apple ha evaso 9 miliardi di dollari (Bowles, 2016).

A metà del 2017 le “Big Five” della Silicon Valley avevano superato i 3 mila miliardi di dollari di valore di Borsa. Apple, Alphabet (la holding che controlla Google), Microsoft, Amazon e Facebook valevano otto volte il PIL della Norvegia, tre volte quello dell’Australia. Complessivamente il fatturato era pari a 288,5 miliardi di dollari. Gli utili erano molto inferiori: 48,9 miliardi di dollari. Apple è la società con il maggiore valore di mercato al mondo 779,7 miliardi di dollari; Alphabet è la seconda con 655,5 (cresciuta del 29,14% in un anno), Microsoft 562, Amazon 488, Facebook 500 (Barlaam 2017).

Le piattaforme mettono in competizione regimi fiscali della stessa area geopolitica – ad esempio i Paesi dell’Unione Europea. Apple ha creato un “paradiso fiscale” in Irlanda in cambio di investimenti e occupazione al governo locale. Uno scambio che non è piaciuto alla Commissione UE, che nel 2016 ha comminato a Apple una multa pari a 13 miliardi di euro (Commissione Europea, 2016 a).

Nel 2017 ha inflitto una multa a Google per 2,42 miliardi di euro a causa della sua posizione dominante sul mercato (Commissione Europea, 2017).

In quest’ultimo caso, la Commissione ha condannato un aspetto decisivo del monopolio Google: sotto le vesti del motore di ricerca “oggettivo”, Google usa i dati generati dalle ricerche online per valorizzare le offerte pubblicitarie delle aziende e dei servizi già presenti sulla piattaforma. La ricerca di un gommista, di un albergo o di un dentista privilegia i clienti di Google, mentre gli annunci dei loro concorrenti sono riportati nella seconda pagina di una ricerca sul tema (De Minico, 2017).

La Commissione UE ha stigmatizzato l’uso dell’algoritmo volto a consolidare la posizione dominante di Google sul mercato pubblicitario usando il lavoro gratuito degli utenti per vendergli servizi a pagamento.

Le sentenze non offrono una soluzione a questo problema e si soffermano sulla materia della concorrenza e su quella fiscale. Sono comunque il segno di un cambiamento delle autorità europee e sta ispirando numerosi accordi su “condoni” per l’evasione fiscale pregressa a livello nazionale. Tuttavia, in mancanza di una regolazione fiscale e della concorrenza a livello globale – un’ipotesi sulla quale difficilmente potrà esistere un accordo tra gli Stati – gli “unicorni” trovano più conveniente pagare le multe che rimpatriare i loro capitali e cambiare il loro modello di business. Al momento l’unica possibilità di regolazione è nei fatti nelle mani degli “unicorni” che dovrebbero, loro sponte, cambiare comportamento. Un’ipotesi improbabile, considerata la loro vocazione monopolista.

Il 13 luglio 2017 il tribunale amministrativo di Parigi ha dato ragione a questa strategia: una sentenza di primo grado ha cancellato una multa da 1,115 miliardi di dollari a Google. La motivazione: i lavoratori di Google Francia non hanno il potere di mettere in linea gli annunci pubblicitari francesi. La pubblicazione dev’essere approvata da Google Irlanda, la sede europea dell’azienda californiana. Questo gioco di scatole cinesi, concepito per eludere la legislazione fiscale e quella sul lavoro è definito «sandwich olandese in salsa irlandese» (Duhigg-Kocieniewski, 2012).

La formula colorita allude alla triangolazione usata dai giganti della Silicon Valley per trasportare i capitali fuori dall’Europa. Il centro di questo sistema è l’Olanda. Gli “unicorni” aprono una sede amministrativa in Irlanda, un Paese considerato come una “buca postale” dove si riceve la corrispondenza, si pagano tasse inferiori della metà rispetto ad altri Paesi europei; in cambio offrono al governo locale posti di lavoro per tacitare la maggioranza parlamentare di turno. Una volta arrivati in Olanda, i capitali sono dirottati verso le Bermuda, Cayman e altri paradisi fiscali. Grazie a questo montaggio le tasse sull’azienda sono ridotte di molto rispetto al già modesto 12,5% versato al governo irlandese. Solo nel 2012 Google Irlanda ha denunciato 15,5 miliardi di euro di ricavi, ma solo 17 milioni sono andati al governo. Fuori dagli Stati Uniti, dove paga il 20%, Google ha versato il 2,6% di tasse sui suoi ricavi (Cassini, 2017).

Gli “unicorni” si insinuano nelle contraddizioni prodotte dal sistema multi-livello dell’Unione Europea. Sulla questione fiscale ha usato la Commissione Europea contro gli Stati mettendoli in concorrenza tra loro. Nel caso della mega-multa a Apple, ad esempio, il governo conservatore irlandese ha denunciato una «interferenza nella sovranità nazionale» e una «comprensione sbagliata di come funziona la tassazione delle multinazionali» da parte della commissaria UE alla Concorrenza Margrethe Vestager (Santelli, 2016).

La leva fiscale è stata usata per aumentare le contraddizioni del mercato europeo e creare una concorrenza al ribasso sul piano fiscale tra gli Stati membri.

L’alleanza tra Apple e il governo irlandese è avvenuta a spese dei cittadini colpiti dalla politica di austerità e dai tagli. «I 13 miliardi che Apple deve versare nelle casse dello Stato equivalgono a 2.800 euro per ogni uomo, donna e bambino irlandese – hanno sostenuto i movimenti irlandesi. Potrebbe essere la fine delle liste di attesa negli ospedali, una soluzione per i senza casa o per le classi sovraffollate. Il governo sostiene che non ha fondi per finanziare i nostri ospedali, le scuole o il trasporto pubblico e il social housing. Le tasse della Apple potrebbero risolvere di gran lunga tutti questi problemi» (Pierro, 2016).

Nel caso in cui il governo decida di incassare la multa, dovrà tuttavia usare l’importo per abbattere il debito pubblico, non per rifondare il sistema sanitario o finanziare il welfare. Il governo non ha la minima intenzione di farlo e ha presentato un ricorso. Trova più conveniente non incassare 13 miliardi di euro – il 6-8% del PIL di un anno – che rinunciare al suo ruolo di paradiso fiscale degli “unicorni”. Sul piatto ci sono i posti di lavoro che Apple ha creato per 5.500 persone; nel settore privato, una persona su cinque lavora per una multinazionale. Tutto questo finirebbe se il governo decidesse di assecondare la Commissione UE. Di colpo gli “unicorni” lascerebbero il Paese e andrebbero in un altro. L’Irlanda potrebbe tornare a chiedere al Fondo Monetario Internazionale, alla BCE o alla Commissione UE un altro piano di aiuti straordinario che porterebbe a nuovi tagli. Nel 2010, l’Irlanda è stata con la Grecia uno degli epicentri della crisi europea. Ha ricevuto un piano di aiuti da 67,5 miliardi di euro in cambio di tagli e austerità. Apple sfrutta questo orientamento della politica economica in Europa e non ne modifica l’orientamento di fondo: con o senza la sua presenza nel Paese, l’austerità continua.

 

IL CASO: IL REDDITO DI BASE NELLA SILICON VALLEY

Il dibattito generato dalla sperimentazione del reddito di base universale da mille dollari al mese per due anni erogato a 600 famiglie dalla start up Generation Y a Oakland, in California, permette di comprendere un altro possibile sviluppo del capitalismo digitale (Sadowski, 2016; Basic Income Network Italia, 2017).

L’esperimento ha rivelato che i beneficiari non smettono di lavorare, ma usano l’importo per migliorare la qualità della vita e la sicurezza sociale sul mercato. Il problema è che tale reddito viene erogato da una piattaforma digitale e non da una collettività. È il risultato di un patto privato tra il singolo cittadino e una piattaforma e non di un patto politico tra una collettività pubblica, un capitalista e il cittadino.

La differenza è sostanziale e porta a riflettere sulla natura politica di una misura sempre più considerata come una soluzione alle diseguaglianze prodotte dal capitalismo finanziarizzato e dai ricatti del lavoro povero. Generalizzare questo modello significa prefigurare la cancellazione di ogni forma di investimento pubblico per convertire i fondi in assegni da dare direttamente ai privati. Il reddito di base cambia di senso: non allontana l’autista di Uber dal ricatto delle paghe da fame, in attesa di un lavoro migliore o del tempo necessario per una vita degna. Al contrario, lo spingerebbe ad accettare un’erogazione monetaria “sgocciolata” dai venture capital della Silicon Valley e a continuare a lavorare per una piattaforma, all’interno di un ecosistema che tende utopisticamente a sostituire lo Stato. Il welfare pubblico diventa un’agenzia al servizio dell’automazione, mentre i diritti sociali sono legati alla partecipazione della vita delle piattaforme. Invece di considerarlo come uno strumento per allentare o cancellare il ricatto del lavoro povero e permettere una liberazione della forza lavoro, il reddito di base è inteso come un sussidio che permette al lavoratore di sopravvivere in un’economia dei “lavoretti” a basso salario, alternando attività per più piattaforme.

Nell’ampio dibattito sul reddito di base nella Silicon Valley esiste la tendenza a immaginare che le piattaforme sostituiranno lo Stato nell’erogazione anche dei servizi sociali, oltre che delle tutele e degli ammortizzatori sociali (Staglianò, 2016).

Una prospettiva da Stato minimo anarco-capitalista che critica la burocratizzazione e le iniquità prodotte dal Welfare statale e assume la finanziarizzazione della vita comune come un dato di fatto, non come un processo politico in corso. In questa prospettiva, nel caso sempre possibile di una privatizzazione integrale dei sistemi di welfare, i cittadini sarebbero vincolati alle incertezze del modello speculativo della Silicon Valley e dovranno assoggettarsi alle regole di condotta imposte dalle piattaforme per ottenere (pagando) il riconoscimento della loro dignità e dei diritti fondamentali.

 

photo: By Samykolon [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons

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