L’odio corre sul social

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Libertà di odiare? Slalom tra due diritti

Come è facile immaginare, il dibattito è aperto e ricorrente attorno al tema della libertà di espressione e dei suoi limiti quando di mezzo vi sia l’odio e le sue conseguenze. Si fronteggiano due libertà-chiave, a livello comunitario così come dei singoli Stati, quella di espressione e di pensiero, appunto, e quella del diritto alla non discriminazione, alla pari dignità. La stessa OSCE-ODHIR (Organization for Security and Co-operation in Europe-Office for Democratic Institutions and Human Rights), che si occupa di monitorare gli hate crimes in tutto il mondo, dunque le condotte d’odio penalmente rilevanti (definite come reati basati su «odio o pregiudizio negativo verso gruppi che condividono caratteristiche comuni di razza, etnia, lingua, religione, nazionalità, orientamento sessuale, genere, o altre caratteristiche fondamentali»), nel presentare le proprie attività dichiara di non fornire deliberatamente informazioni e monitoraggio sui discorsi d’odio perché «non vi è consenso all’interno della regione OSCE attorno alla criminalizzazione di tali condotte» (OSCE-ODHIR, 2017).

A livello comunitario, un punto di accordo è stato trovato – come meglio detto più avanti – nel campo della xenofobia, dalla Decisione quadro del Consiglio d’Europa del 2008, che ha sancito come condotta penalmente rilevante l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio, l’istigazione mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti o immagini e l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana di genocidio e crimini contro l’umanità. L’ONU, nella sua Raccomandazione n. 35 del 2013, che peraltro si limita all’odio razziale ed etnico, raccomanda di circoscrivere l’approccio penale a «casi gravi, provati oltre ragionevole dubbio, mentre quelli meno gravi dovrebbero essere trattati con modalità diverse dal codice penale, considerando anche l’impatto e l’estensione degli effetti sui gruppi bersaglio», e in ogni caso la criminalizzazione eventuale deve basarsi su «principi di legalità, proporzionalità e necessità» (ONU-CERD, 2013; Marcelli, 2015).

La raccomandazione ONU indica cinque tipologie di condotte correlate all’hate speech che dovrebbero diventare hate crimes: la diffusione attraverso qualsiasi media di idee basate sull’odio o la supremazia razziale ed etnica; l’istigazione all’odio e alla discriminazione; la minaccia o l’istigazione alla violenza contro gruppi specifici; insulti e ridicolizzazione dei gruppi citati quando questo sia funzionale all’istigazione all’odio e alla discriminazione; l’appartenenza a organizzazioni che hanno come finalità l’istigazione all’odio e alla discriminazione razziale.

La delicata questione del bilanciamento tra due diritti fondamentali ha assunto caratteri di grande complessità da quando sono entrati in scena i social media. Si sono moltiplicate le vie d’uscita al dilemma basate sul mettere da parte il codice il penale e valorizzare, invece, un approccio di responsabilizzazione orizzontale tra i media stessi, fondato su mutui accordi e codici di condotta: con luci e ombre, perché se sono noti i limiti del penale nel contenere fenomeni così profondi, d’altra parte un conto è fornire una cornice di garanzia – per tutti gli attori – ex lege, un conto è affidarsi ad accordi tra stakeholder.

Il più recente accordo riguarda i social media, il veicolo comunicativo più pervasivo in tema di hate speech: la Commissione Europea stipula nel 2016 un Codice di condotta per il contrasto ai discorsi d’odio illegali on line, siglato con le maggiori compagnie, Facebook, Google, Twitter, Microsoft. L’aggettivo “illegali” acquisisce quanto introdotto dalla citata Decisione quadro del 2008, e si concentra sulla fattispecie dell’istigazione all’odio e alla violenza, la cui intenzionalità e finalità fa da discrimine con l’espressione tout court di un “libero pensiero”. La cornice in cui il Codice è stato elaborato sottolinea la libertà di espressione come un diritto fondamentale, per come sancito anche dalla Corte europea dei Diritti Umani, quando – in una sentenza relativa a un caso sollevato nel Regno Unito nel lontano 1976 – ha affermato che questa libertà è da rispettare «non solo quando tratti di informazione o di idee ritenute inoffensive o neutrali, ma anche quando sia fonte di possibile offesa, disturbo o trauma per lo Stato o per un settore della società». Dunque, quella dell’istigazione si profila la soglia del distinguo. Il Codice ruota attorno al nodo della rimozione dai social media di messaggi che appunto istigano all’odio e alla violenza contro gruppi definiti, sulla base di notifiche circostanziate, e alla tempestività dell’individuazione e del relativo intervento (24 ore). La rimozione tiene conto dei codici che le compagnie stesse si danno e danno alla loro community, e delle leggi nazionali che recepiscono la Decisione quadro citata; le compagnie, inoltre, si impegnano a comunicare e a promuovere presso i propri utenti le regole della comunicazione rispetto al discorso d’odio, anche collaborando con le organizzazioni della società civile e promuovendo narrazioni alternative e di contrasto allo hate speech (Commissione Europea, 2017).

 

Social media. Prove di autoregolamentazione

Funziona, questo codice di autoregolamentazione? Va detto che alcune delle ONG impegnate nel settore della comunicazione web, la cui mission è la difesa della libertà di espressione e la lotta alla censura, come European Digital Rights (EDRi) e Access Now, hanno da subito lamentato poca trasparenza e la difficoltà a essere consultate e incluse, oltre a sottolineare il fatto che si finisce con il delegare a poche aziende private (e americane) una regolamentazione che forse meriterebbe un contesto di garanzia pubblica, e giuridica, che però a tutt’oggi le differenze intra-EU non permettono (Access NOW, 2016).

In ogni caso, va anche detto che il primo monitoraggio sul Codice, avvenuto sei mesi dopo la sua approvazione, e un successivo secondo attuato nel 2017, ne hanno incluse 12, di associazioni (l’UNAR per l’Italia), nel percorso di monitoraggio attuato in nove Stati membri (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Regno Unito). Che ha dimostrato questo: nel 2016 su 600 notifiche di hate speech, ne sono state rimosse 169, il 28,2% complessivamente (percentuale poi salita al 59% nel 2017), Facebook ha rimosso il 28,3% delle sue segnalazioni, Twitter il 19,1% e YouTube il 48, 5%. Nel 2016 il 40% delle segnalazioni ha avuto risposta entro le 24 ore previste, il 43% entro 48 ore; nel 2017 risulta una percentuale del 50% entro le 24 ore, sebbene solo Facebook si sia particolarmente attivata in questo senso. Mediamente, poi, vengono considerate tempestivamente più le segnalazioni provenienti da enti pubblici, come le associazioni, che da singoli cittadini: lo scarto minore tra le due categorie è di Facebook (rispettivamente 29% e 28%), maggiore per YouTube (68% e 29%) e Twitter (33% e 5%) (Commissione Europea, 2016).

Social in Italia. Il Codice non marcia

Nella prima tornata di verifica del Codice, nel 2016, l’associazione Carta di Roma – che nasce nel 2011 per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, con la collaborazione di Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (CNOG) e Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) – ha sperimentato i dispositivi del Codice segnalando a Facebook 100 messaggi che incitano all’odio razziale. «La scelta – dicono – è, purtroppo, molto ampia: individuiamo quindi i commenti che non solo sono apertamente razzisti e/o discriminatori, ma che, nella maggior parte dei casi, incitano in modo palese all’odio e/o alla violenza», in questo seguendo le linee guida della stessa community Facebook. Il lato positivo è che si ottiene un feedback entro le 24 ore previste dal Codice, quello interrogativo è che su 100 segnalazioni ne vengono rimosse solo nove.

Carta di Roma non ha intenti censori, e non è il dato quantitativo secco che lascia perplessi, ma il fatto di individuare messaggi con le stesse parole e lo stesso significato che in un caso vengono rimossi e in altri nove no. Per esempio: «Tra i rimossi troviamo un “Riaprite i forni”. Lo stesso esplicito richiamo a forni crematori e camere a gas si trova tuttavia in vari altri commenti che sono stati lasciati online, perché rispondenti agli standard della comunità». Perché? Interpellata, Facebook Italia segnala che le parole vengono lette nel contesto, c’è una valutazione minuta, tanto che la selezione non è governata da un algoritmo ma da un team di persone “in carne e ossa”. Il che va bene, ma può anche stare alla base di un eccesso di soggettivismo. La conclusione di quelli di Carta di Roma è che «il risultato è stato per noi desolante: la permanenza sul web di quei 91 contenuti, ancora consultabili, dimostra che nell’atto pratico della moderazione l’hate speech è tuttora tollerato, nonostante l’azienda ne prenda fermamente le distanze e lo condanni» (Carta di Roma, 2016 a).

Se si leggono i dati delle segnalazioni effettuate da alcune ONG che hanno partecipato al monitoraggio 2016, si vede che mentre quelle tedesche hanno segnalato un 52% di rimozioni sul totale delle segnalazioni, le francesi il 58,1%, le inglesi il 20,5% e le austriache l’11,4%, l’Italia – rappresentata da UNAR – si attesta solo al 3,6% (Commissione Europea, 2016).

A titolo esemplificativo, alcuni dei messaggi d’odio segnalati ma non ritenuti meritevoli di rimozione: Andrea C.: Dachau chiama; Pietro U. C.: Meno zingari, più camere a gas #nazionalsocialismo #unicavia; Luigi F.: E questo dimostra quanto sia ridicola e a portata di mano la scusa della religione, tra un po’ gli daranno il culo. Il loro cmq, xkè x me meritano solo di essere bruciati vivi. […]; Luigi M.: per non nuocere alla salute altrui sedato con un calibro 12 a pallettoni; Loreto L. B.: UCCIDETELI tutti senza pietà; Gino S.: Agenti non fatevi nemmeno toccare menateli di brutto il popolo vi difenderà dinnanzi alla giustizia malata e di sinistra… Spaccategli la schiena a sti bastardi…; Daniele B.: Fucilateli non ci servono solo merda che cammina preservare la razza italiana grazie questi sono capaci solo di lamentarsi; Licia M.: Visto che non si fanno identificare… marchiateli a fuoco sul dietro dei pantaloni come si faceva con le mandrie…; Sandro A.: LANCIAFIAMME; Nicola G.: CREMATORIUM; Angela F.: riaprite i forni.; Luca L.: Mi è venuta un’idea geniale per porre fine alle sofferenze di tutti gli immigrati e profughi che sono dai noi: AMMAZZIAMOLI TUTTI, non soffriranno e non si lamenteranno più. E via elencando (Carta di Roma, 2016 a).

 

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Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso al 15° Rapporto

Il vecchio che avanza. Leggi e scarica qui l’introduzione di Sergio Segio al 15° Rapporto

La presentazione alla CGIL di Roma

Qui la registrazione integrale della presentazione alla CGIL di Roma del 27 novembre 2017

Qui le interviste a Sergio Segio, Patrizio Gonnella, Marco De Ponte, Francesco Martone

Qui notizie e lanci dell’ANSA sulla presentazione del 15° Rapporto

Qui il post di Comune-Info

Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro

Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37

Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21

Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018

Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto

Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018



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