Iran. La crisi del neo-pragmatismo e il ritorno al potere dei conservatori

Iran. La crisi del neo-pragmatismo e il ritorno al potere dei conservatori

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Il 21 febbraio 2020 si sono tenute in Iran le elezioni parlamentari, e in concomitanza anche le votazioni ad interim per l’elezione dei membri vacanti dell’Assemblea degli Esperti (Majlis-e Khobregan), l’organo cui è di fatto delegata la selezione, la nomina, la conferma ed eventualmente la destituzione della Guida Suprema. Il voto per l’Assemblea si è tenuto nelle cinque province del Nord Khorasan, del Razavi Khorasan, di Fars, di Tehran e di Qom, per eleggere un totale di 7 membri a completamento degli 88 scranni dell’Assemblea. Le elezioni parlamentari e quelle dell’Assemblea degli Esperti hanno fatto registrare un’affluenza alle urne intorno al 42%, collocandosi come quelle con il minor numero di votanti dal 1979.

Con le elezioni parlamentari del 2020 la politica iraniana torna a essere dominata dalle formazioni di orientamento conservatore, terminando di fatto l’esperimento politico pragmatista di Hassan Rohani e, soprattutto, soffrendo la radicalizzazione del rapporto con gli Stati Uniti, unilateralmente usciti dall’accordo globale sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA).

L’ambito politico dei conservatori, che si accinge a guidare la corsa alle elezioni presidenziali del 2021, è spesso oggetto di eccessive semplificazioni, presentandosi al contrario come un insieme molto eterogeneo e soventemente conflittuale al suo interno. L’analisi del voto, in tal modo, dimostra che il nuovo parlamento, per quanto a maggioranza conservatrice, è espressione di correnti ideologiche e fazioni molto diverse tra loro. Questo lascia presagire, da una parte, la certezza di una rottura con molte delle prerogative che furono del governo Rohani, ma, dall’altra, anche una certa linea di continuità sul piano delle strategie complessive della Repubblica Islamica dell’Iran, soprattutto sul piano della politica di sicurezza.

Centrale, nell’evoluzione del dibattito politico iraniano, sarà la gestione della complessa e delicata transizione generazionale in atto al più alto livello di controllo del potere politico ed economico, e, di conseguenza, la capacità politica che la Guida saprà esprimere nel moderare le sempre più conflittuali istanze della prima e della seconda generazione, in una competizione per il predominio del potere, che in pochi anni muterà sostanzialmente il volto della politica iraniana.

 

  1. I conservatori tornano al potere

L’esito delle elezioni di febbraio era largamente scontato, e la vittoria dei conservatori ampiamente anticipata dalla stampa, sebbene nel loro complesso queste elezioni presentino alcuni spunti utili per una più approfondita analisi sull’evoluzione politica del paese.

Come detto, l’affluenza alle urne per la formazione dell’undicesimo parlamento iraniano è stata del 42,57%, il valore più basso di votanti dal 1979 a oggi. Non ha destato alcuna sorpresa il fatto che le formazioni dell’area conservatrice abbiano conquistato 221 dei 290 seggi parlamentari, assicurandosi in tal modo la maggioranza assoluta dell’intero parlamento.

La ragione di un risultato così deludente (19% in meno rispetto alle precedenti elezioni del 2016) è da individuarsi in una molteplicità di ragioni, tra cui in primo luogo l’enorme numero di squalifiche tra i candidati di area non-conservatrice, la disillusione degli iraniani tanto verso le politiche del governo quanto di quelle della comunità internazionale e, non ultima, la grave crisi economica che affligge il paese in conseguenza della riattivazione delle sanzioni secondarie degli Stati Uniti.

Il processo di squalifica dei candidati alle elezioni rappresenta senza dubbio la principale causa dell’astensione da parte degli elettori, che vedono in questa decisione un tentativo di imporre un esecutivo caratterizzato da una forte rappresentatività delle formazioni conservatrici, espressione in principal modo della seconda generazione del potere iraniano.

Sono stati circa 7.000 i candidati alle elezioni parlamentari il cui profilo è stato oggetto di “squalifica” da parte del Consiglio dei Guardiani – l’organo istituzionale chiamato a verificare l’eleggibilità di ogni singolo candidato – e tra questi anche molti parlamentari della precedente legislatura, per i quali il Consiglio ha ritenuto fossero cessate le capacità.

Deve essere poi registrato un diffuso sentimento di disillusione politica all’interno della società iraniana, in modo del tutto trasversale, generato dalle grandi aspettative connesse alla firma dell’accordo con la comunità internazionale nel 2015 e dalla successiva frustrazione per l’uscita degli Stati Uniti, la re-imposizione delle sanzioni secondarie e la conseguente crisi economica, che sempre più stringe la morsa della capacità di resistenza dell’Iran.

Questo sentimento di frustrazione ha visto in egual misura esprimere posizioni di condanna tanto verso gli Stati Uniti e la comunità internazionale, rei di aver platealmente tradito l’Iran, quanto in direzione delle forze politiche conservatrici, accusate di aver agevolato il processo di crisi con la comunità internazionale attraverso il proprio approccio alla politica estera e di difesa sul piano regionale.

Ciò di cui gli iraniani sono oramai consapevoli, quindi, è che una normalizzazione delle relazioni politiche ed economiche dell’Iran con la comunità internazionale è di fatto impossibile allo stato attuale, se non al prezzo di una sostanziale perdita di sovranità.

Questo genera sentimenti controversi sul piano sociale, e soprattutto nell’eterogenea terza generazione, che si vede in tal modo costretta a formulare le proprie scelte politiche tra l’incudine di un sistema istituzionale largamente inviso a più, e il martello di una comunità internazionale arrogante che ferisce sistematicamente l’orgoglio nazionalista iraniano.

Il risultato delle elezioni parlamentari del 2020 consolida quindi fortemente la seconda generazione del potere, sancisce la definitiva transizione dal ruolo egemone della prima generazione e determina un quadro che disorienta la comunità internazionale, spesso incapace di leggere le dinamiche politiche iraniane e incline a generalizzazioni di ampia portata.

A temere maggiormente un risultato di tale natura è invece la Guida, Ali Khamenei, che sull’affluenza alle urne – solitamente elevata – costruisce la legittimità delle istituzioni e la continuità del modello ideologico rivoluzionario, temendo al contrario fortemente che la società iraniana possa nuovamente esprimere il proprio dissenso come nel 2009 e nelle più recenti proteste dello scorso ottobre.

Sebbene nella narrativa adottata dalla stampa internazionale le elezioni iraniane siano state dominate e vinte delle forze ultra-conservatrici – attraverso l’adozione in tal modo di categorie politiche che spesso hanno poca rispondenza nel panorama ideologico iraniano, o che presentano sfumature e differenze di non trascurabile importanza – l’analisi dei dati elettorali permette di operare distinzioni di non trascurabile dimensione, permettendo di costruire uno scenario certamente meno apodittico.

È necessario ricordare come il sistema elettorale iraniano – a valle del filtro selettivo operato dal Consiglio dei Guardiani – sia basato su un sistema maggioritario su distretti uninominali e plurinominali, con la possibilità di un secondo turno elettorale.

Non esistono in Iran veri e propri partiti, come nella tradizione europea, quanto piuttosto formazioni costruite intorno ai vari candidati, che si uniscono in coalizioni a “geometria variabile”, e cioè caratterizzate da ampia possibilità di mutamento all’indomani delle elezioni, una volta che i voti hanno effettivamente pesato la capacità dei candidati di conquistare un seggio in parlamento.

La legge elettorale stabilisce i criteri attraverso i quali si determina l’aggiudicazione dei seggi, che varia a seconda dei collegi. In quelli uninominali i candidati devono raggiungere la soglia del 25% al primo turno, ed eventualmente andare al ballottaggio tra i primi due con voto maggioritario.

Nei collegi plurinominali, invece, ogni candidato deve essere votato da almeno il 25% degli aventi diritto per essere eleggibile, e tra questi vengono poi nominati in parlamento coloro che ottengono più voti, sino al raggiungimento del numero massimo per circoscrizione. Nel caso in cui alcuni candidati non raggiungano la soglia al primo scrutinio viene organizzato un ballottaggio.

I criteri di ammissibilità per le candidature dei parlamentari, passati al vaglio del Consiglio dei Guardiani, sono ampi e altamente discrezionali (come nel caso della “lealtà alla Repubblica Islamica” e della “reputazione”), permettendo a seconda delle fasi politiche vaste manovre di censura.

Il quadro politico, infine, è suddiviso genericamente nelle tre macroaree del riformismo, del pragmatismo e del conservatorismo, all’interno delle quali sono presenti correnti di diversa natura e posizioni spesso anche in aperto contrasto tra loro.

L’area riformista è quella idealmente legata all’esperienza politica dell’ex presidente Mohammad Khatami (dal 1997 al 2005), caratterizzata da una politica di forte apertura sociale e di distensione sul piano delle relazioni internazionali, ma anche improntata al liberismo economico e al contrasto al potere delle Fondazioni e dell’Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC) nell’economia.

Caratteristica, quest’ultima, che ha posto il movimento riformista in netto e assoluto contrasto con le componenti dell’area conservatrice più coinvolte nelle questioni economiche e industriali del paese, determinando una frattura insanabile che ha portato nel 2005 all’elezione del presidente Mahmood Ahmadinejad.

Il fronte dei conservatori iraniani, spesso chiamati anche “principalisti” o “usulgaran”, rappresenta un vasto quanto eterogeneo insieme che raccoglie al suo interno dalle espressioni ideologiche centriste a quelle più conservatrici e radicali, dando vita ad un vasto, eterogeneo e spesso conflittuale consesso ideologico. Le posizioni più comunemente ascrivibili all’insieme dei conservatori sono quelle di difesa dell’indipendenza e dell’autonomia iraniana sotto il profilo delle relazioni internazionali, del rispetto delle tradizioni religiose sul piano sociale (sebbene con ampi margini di divergenza tra le diverse fazioni) e della difesa delle prerogative economiche dello Stato e delle strutture che al suo interno le gestiscono.

Il fronte conservatore è caratterizzato dalla presenza di numerose fazioni al suo interno, con posizioni molto divergenti tra loro tanto sul piano della politica quanto su quello dell’economia e dei costumi. All’interno dello stesso schieramento politico esistono profonde divergenze, in modo particolare tra gli esponenti di prima e seconda generazione, che sfociano di frequente in contrasti anche di ampia portata sul piano del dibattito parlamentare.

Il termine “ultra-conservatori”, con il quale sovente si definiscono all’estero le frange più estreme del conservatorismo, assume un significato molto diverso all’interno del complesso insieme ideologico iraniano, riferendosi spesso da una parte alle posizioni ideologico-religiose di prima generazione e al tempo stesso a quelle di politica economica della seconda generazione.

I pragmatici, infine, sono gli esponenti politici di quel processo politico idealmente riconducibile al defunto ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che a partire dai primi anni Novanta cercò di favorire l’avvio di una fase politica che superasse i rigori del primo decennio della Repubblica Islamica e transitasse l’Iran verso la fase post-bellica, attraverso una politica di apertura sul piano economico, di “pragmatiche” relazioni internazionali e di moderata tolleranza su quello sociale.

Erede del pragmatismo è il neo-pragmatismo, nell’ambito del quale si colloca l’attuale presidente Hassan Rohani, che propone un modello politico di sintesi tra il riformismo e il conservatorismo, costruito sullo sviluppo economico quale elemento di trasformazione della società iraniana, nell’ambito di forti aperture sul piano della politica internazionale.

 

  1. Rilevanza dell’Assemblea degli Esperti

Non meno rilevante è stata l’elezione ad interim per l’Assemblea degli Esperti. I membri dell’Assemblea vengono eletti a suffragio universale ogni otto anni, ma ogni quattro viene indetta una votazione ad interim (se necessario) per eleggere quei componenti eventualmente venuti a mancare nei primi quattro anni di esercizio.

Ai candidati è richiesta una conoscenza approfondita delle leggi coraniche, certificata da diploma rilasciato dagli enti di formazione religiosa, e di sostenere con profitto un esame di giurisprudenza islamica presso il Consiglio dei Guardiani, che costituisce la principale barriera all’ingresso per i candidati all’Assemblea, soprattutto in termini di selezione sul piano ideologico.

Sotto il profilo formale della sua amministrazione, l’Assemblea si riunisce due volte l’anno, di fatto per discutere in merito all’operato della Guida, sebbene mai nella storia dell’Istituzione ne sia stato – almeno ufficialmente – contestato il ruolo o l’operato.

L’Assemblea è strutturata al suo interno in un Consiglio Direttivo e sei Comitati. Il Consiglio viene eletto ogni due anni con voto segreto e si compone del Presidente, dei due vicepresidenti, due segretari e due assistenti, e rappresenta l’organo più importante e influente per la gestione dell’Assemblea.

I sei comitati sono invece composti ognuno da circa 13-15 membri e presieduti da un direttivo di altri cinque con funzioni di coordinamento, ed ognuno di essi si occupa di un tema specifico, riferendo periodicamente al Consiglio Direttivo.

Tra i più importanti dei sei comitati, invece, spiccano quelli denominati Articolo 107, Articolo 109 e Articolo 111, riferiti ad altrettanti articoli della Costituzione. Il primo si occupa di valutare le qualità e le competenze da giurisperito del rahbar, la Guida Suprema, mentre il secondo è costantemente impegnato nella valutazione di possibili candidati per l’assunzione della più alta carica istituzionale. La commissione per l’Articolo 111 è probabilmente la più importante tra le sei, ed è quella che deve monitorare il lavoro svolto dalla Guida ed eventualmente proporne le revoca dall’incarico. Questa commissione si compone di sette membri e i suoi rapporti sono secretati, accessibili esclusivamente dal Consiglio Direttivo.

C’è poi la commissione Articolo 108, che si occupa di verificare la conformità dell’operato dell’Assemblea con la legge che ne regola il funzionamento, promulgata dal Consiglio dei Guardiani, e poi ancora le commissioni per la Finanza e il Budget e quella per gli affari Sociali e Politici.

Secondo alcuni sarebbe presente all’interno dell’Assemblea anche un comitato segreto, istituito nel 2002 e composto da tre soli membri, che si riunirebbe all’insaputa dei restanti componenti dell’Assemblea e la cui funzione sarebbe quella di identificare dieci candidati sempre potenzialmente pronti a rappresentare la prima linea delle candidature per la successione alla Guida, in caso di morte o incapacità. Tale compito, tuttavia, è di fatto già svolto dal comitato per l’Articolo 109, e il lavoro della commissione segreta risulterebbe in tal modo tanto ridondante quanto inopportuno all’interno dell’Assemblea, rendendo alquanto improbabile la credibilità delle informazioni che ne paventano l’esistenza.

L’Assemblea degli Esperti è probabilmente l’istituzione meno nota, soprattutto all’estero, e spesso ritenuta di fatto poco significativa all’interno dell’architettura istituzionale iraniana. Al contrario, invece, riveste una significativa importanza politica per la legittimazione dell’intero sistema istituzionale iraniano e diventa un organo cruciale allorquando l’età o le condizioni di salute della Guida lascino presupporre una sua possibile imminente sostituzione. Il susseguirsi di notizie, ormai da tempo, di un progressivo deterioramento delle condizioni di salute di Ali Khamenei – che, peraltro, nell’aprile 2020 ha compiuto 81 anni – determinano una contestuale enorme crescita di interesse sul piano locale per l’Assemblea degli Esperti, alimentando la curiosità della società iraniana per le sue vicende e, soprattutto, per l’orientamento politico dei suoi principali attori.

Con le elezioni ad interim del 21 febbraio 2020 sono stati eletti i sette seggi vacanti dell’Assemblea degli Esperti, andando in tal modo a completare i ranghi degli eletti nel 2016.

Nella provincia di Tehran si è votato per l’elezione di tre membri, e lo spoglio delle schede ha permesso di confermare la vittoria di Ali Momenpour, Abbasali Akhtari e Gholamreza Moghaddam. Nella provincia del Khorasan Razavi è stato invece eletto Mohammad-Taghi Masbah Yazdi, mentre Gholamreza Fiazi è risultato vincitore nella provincia di Qom. La provincia di Fars ha espresso come candidato Mohammad Yazdi, mentre infine la provincia del Nord Khorasan ha visto trionfare Lotfallah Dezkam.

L’orientamento ideologico dell’Assemblea degli Esperti viene con le ultime elezioni ad interim a riconfermarsi pienamente riconducibile nell’area più estrema del sistema politico dei conservatori. Non un sostanziale mutamento d’indirizzo, quindi, ma una conferma di posizione che rispecchia gli orientamenti assunti a partire dalla seconda metà del 2017, quando, alla morte di Ali Akhbar Rafsanjani – che aveva cercato di favorire l’uscita dall’Assemblea degli esponenti più radicali di prima generazione – era stato in un certo qual modo ristabilito il tradizionale primato dei religiosi di prima generazione nell’orientamento dell’istituzione.

Il ritorno all’Assemblea di Mohammad-Taghi Mesbah Yazdi e di Mohammad Yazdi rappresenta il culmine della capacità di ri-consolidamento del gruppo di potere conservatore che ha sempre storicamente esercitato il proprio controllo sull’Assemblea, in particolar modo attraverso la figura di Ahmad Jannati.

Mentre in parlamento è possibile constatare un dualismo tra conservatori di prima e seconda generazione, con posizioni fortemente divergenti su numerosi dei principali dossier politici ed economici del paese, l’Assemblea degli Esperti torna a confermarsi ancora una volta come una roccaforte delle frange più radicali del conservatorismo di prima generazione.

 

  1. La posizione della Guida e il ritorno alla narrativa antisionista

La Guida ha certamente guardato con soddisfazione all’esito delle elezioni, sebbene ben conscia del fatto che una vittoria dei conservatori non significhi di per sé la conquista di un equilibrio politico nelle istituzioni.

I più votati tra i membri del nuovo parlamento sono politici di prima generazione notoriamente fedeli alla Guida, sebbene non inclini a tollerare gli eccessi di molti degli esponenti di seconda generazione. La Guida avrà quindi un compito non facile nel comporre le diatribe che certamente prenderanno forma nell’ambito del nuovo parlamento ed è anche per questa ragione che ha deciso di ravvivare alcuni degli elementi narrativi più tradizionali dell’Iran rivoluzionario, nell’ottica della ricerca di una coesione nazionale che travalichi i personalismi politici.

Il 22 maggio del 2020, giornata dedicata in Iran alla preghiera per Gerusalemme (Qods), la Guida Ali Khamenei ha pronunciato un rovente sermone dai caratteristici tratti antisionisti, con l’intento di rafforzare la narrativa politica in chiave conservatrice e lanciando al contempo un messaggio alle società arabe della regione, con le quali Tehran cerca invano di identificare un comune piano dialettico.

Il sermone della Guida si inserisce in una delicata fase politica dell’Iran, risultando tanto sgradito sul piano nazionale quanto inutile su quello internazionale, non ultimo rafforzando gli stereotipi della narrativa anti-iraniana di Israele e di molti paesi europei.

La Giornata di Qods rappresenta nell’Iran rivoluzionario uno dei molti appuntamenti religiosi dal sapore squisitamente politico, dove periodicamente gli esponenti dell’élite esprimono posizioni tanto forti quanto autoreferenziali, funzionali al rafforzamento della propria posizione nell’ambito del sistema politico.

Si tiene tradizionalmente l’ultimo venerdì del Ramadan, prima dell’Eid, ed è concepita come una manifestazione di massa atta a sostenere la causa palestinese e il ritorno di Gerusalemme a città libera dal giogo israeliano. Questa ricorrenza è solitamente partecipata prevalentemente da masse di cittadini incentivati a presenziare in funzione della possibilità di un ritorno personale, spesso a seguito dell’adesione a qualche tipo di associazione che ne organizza la mobilitazione e il trasporto.

La portata di queste manifestazioni ha un valore del tutto relativo sul piano della società e dei reali indirizzi di politica estera e di difesa del paese, godendo di scarsa attenzione popolare e di ancor meno di credibilità e condivisione sul piano della narrativa. Più in generale, la società iraniana è ormai largamente ostile al perpetuarsi di queste dinamiche verbali, considerate non solo una fallace rappresentazione del pensiero comune ma anche un vero e proprio danno d’immagine, che non manca mai di produrre conseguenze sulla reputazione dei giovani iraniani all’estero e sulla loro possibilità di accedere alle sempre più strette maglie dei visti e delle borse di studio.

La giornata di Qods del 2020 è stata annullata nella sua forma pubblica in conseguenza della perdurante emergenza connessa alla diffusione del Covid-19, ma il tradizionale sermone religioso è stato in ogni caso trasmesso dai media, lasciando perlopiù indifferenti gli iraniani.

Al contrario, in Europa e negli Stati Uniti, il discorso di Khamenei di quest’anno ha destato una particolare irritazione, avendo riportato i toni – dopo alcuni anni di relativa moderazione – sul piano dell’incitazione al jihad e all’impegno per la cacciata di Israele dalle terre dei palestinesi.

In particolare, il discorso di Khamenei di quest’anno ha fatto riferimento a un impegno comune che non deve essere solo arabo (per la liberazione della Palestina) ma deve dirsi proprio di tutti i musulmani, facendo spesso ricorso all’ambiguo termine “jihad” nella consapevolezza della sua duplice interpretazione per chi parla arabo e chi invece ne conosce la sola – errata – traduzione.

Khamenei ha poi definito Israele come un tumore canceroso nella regione, invitando all’azione nei territori palestinesi e ricordando come «i sionisti conoscano solo il linguaggio della forza», esprimendo senza alcun ragionevole dubbio un’incitazione alla violenza.

Immediata è stata la reazione della comunità internazionale, che ha condannato l’Iran e respinto le minacce di Khamenei, come nel caso dell’Unione Europea, dove l’Alto Rappresentante Josep Borrell ha espressamente condannato le parole della Guida definendole «totalmente inaccettabili e incompatibili con l’obiettivo di garantire che la regione sia stabile e pacifica».

La violenza dei toni verbali espressi in occasione della celebrazione della giornata di Qods del 2020 ha destato stupore e perplessità. Si è trattato innanzitutto di un piano comunicativo preorganizzato, che ha coinvolto diverse strutture dell’apparato governativo iraniano nella predisposizione di attività – in Iran e al di fuori del paese – atte a lanciare un chiaro e univoco messaggio di condanna verso Israele e, al tempo stesso, un invito collettivo alla comunità musulmana per intraprendere l’azione a favore del popolo palestinese.

Un piano della comunicazione studiato con precisione e quindi espressione di una deliberata volontà politica, che ha costruito sul richiamo all’impegno comune dei musulmani il suo perno strategico, nell’intento di generare consensi nelle ampie sacche di ostilità a Israele presenti nelle società arabe di tutto il Medio Oriente.

La narrativa antisionista è parte integrante della più ampia sfera comunicativa delle formazioni conservatrici, che, pur in modo diverso tra loro, hanno sempre utilizzato la leva dell’opposizione al ruolo di Israele e la retorica dell’oppressione palestinese come strumenti identificativi del carattere rivoluzionario della Repubblica Islamica. Si tratta di una narrativa consapevolmente pensata per innescare la miccia del biasimo internazionale, elemento cardine di quelle politiche isolazioniste che dal 1979 hanno periodicamente caratterizzato la strategia politica delle frange più estreme, nel tentativo di salvare il regime dalla “corruzione ideologica” esterna attraverso processi di isolamento provocati da atti intenzionalmente pianificati (occupazione dell’ambasciata statunitense, conferenza sull’Olocausto, ecc.).

La narrativa dell’antisionismo è solitamente accompagnata da un preciso impiego di termini e locuzioni che comportano la possibilità di multiple interpretazioni del linguaggio, al fine di ingenerare soprattutto tra gli stranieri la percezione di una violenza verbale che, al contrario, sul piano domestico può essere facilmente stemperata e accusata di fraintendimento.

Una strategia che gode di scarso sostegno popolare, e che anzi costituisce per la gran parte degli iraniani motivo di grande imbarazzo, distruggendo quell’immagine di antica cultura e sofisticata capacità del pensiero che l’intellighentsia iraniana cerca sempre più difficilmente di difendere.

Il ricorso alla narrativa dell’antisionismo è quindi sempre espressione di una chiara linea politica orientata alla rottura col passato, soprattutto sul piano della politica locale, finalizzata a ristabilire il predominio dei valori rivoluzionari e le prerogative delle componenti fondamentaliste. In questa fase deve quindi essere interpretata come una strategia atta a impedire qualsiasi possibilità di successo alle ultime iniziative politiche dell’Amministrazione Rohani, alla sua pervicace volontà di scendere a patti con gli Stati Uniti e, di conseguenza, al tentativo di stravolgere i pilastri ideologici ed istituzionali che rappresentano il cardine della tenuta degli interessi della prima e della seconda generazione del potere.

 

* Nicola Pedde, dal 18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020

Nicola Pedde è direttore dell’Institute for Global Studies, think tank specializzato sui temi della politica, della sicurezza e dell’economia nelle regioni del Medio Oriente e dell’Africa. Dal 2002 è anche Direttore della Ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici del Centro Alti Studi per la Difesa, prima per l’area energia e poi per quella del Medio Oriente e Nord Africa.

Nell’ambito dello stesso centro ha svolto attività di ricerca su progetti specifici inerenti alle tematiche regionali energetiche, politiche e della sicurezza.

È laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha un Master in Relazioni Internazionali conseguito presso la St. Johns University of New York e un Dottorato in Studi Geoeconomici conseguito presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”.

***

18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020, “Il virus contro i diritti”, a cura di Associazione Società INformazione.

L’edizione italiana, Ediesse-Futura editore, in formato cartaceo può essere acquistata anche online: qui
L’edizione internazionale, in lingua inglese, Milieu edizioni, può essere acquistata qui in cartaceo e qui in ebook



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