Quale diritto? Da Gaza allo Yemen, l’occidente lascia la diplomazia per le armi

Quale diritto? Da Gaza allo Yemen, l’occidente lascia la diplomazia per le armi

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All’Aja il Sudafrica post-coloniale si fa portavoce del sud per un diritto globale non più solo “bianco”. In Yemen al via una guerra a sostegno di Israele, e non tanto per la libertà di commercio

 

«È stato il devastante j’accuse del secolo, la voce della decolonizzazione. Due ore di fatti e prove davanti alla Corte di Giustizia internazionale, dopo le quali non esiste più la scusa del “non sapevamo”. È caduta a pezzi la facciata di moralità e rettitudine che Israele e Stati uniti rivendicano; è stata fatta la Storia, indipendentemente da cosa poi decideranno i giudici, da a cosa si piegheranno».

Così Priyamvada Gopal (studi postcoloniali, Cambridge) ha commentato l’arringa sudafricana contro l’azione di Israele a Gaza. Quasi a darle ragione, le stesse grandi catene televisive, che non hanno trasmesso la diretta all’accusa, hanno poi mandato in livestream la risposta degli avvocati di Israele.

CASOMAI qualcuno nutrisse dubbi su come il processo arrivi a toccare in profondità i rapporti fra gerarchie coloniali e violenza di massa, a rappresentare il Sudafrica c’è un’avvocata irlandese, Blinne Ní Ghrálaigh, mentre la difesa di Israele è guidata da un avvocato britannico, Malcolm Shaw KC.

Laureata a Cambridge, Blinne Ní Ghrálaigh ha rappresentato la Croazia contro la Serbia e ha difeso le famiglie delle vittime del Bloody Sunday nordirlandese: ha dipinto Gaza come il primo genocidio nella Storia in cui le vittime trasmettono la loro stessa distruzione, nella speranza che il mondo possa fare qualcosa. Anche Shaw è già stato davanti alla Corte, in difesa di Serbia, Emirati arabi e Camerun: ha denunciato la distorsione di fatti e circostanze presentate dal team sudafricano.

Del resto, per quanto quest’ultimo abbia premesso una chiara e inequivoca condanna dei crimini perpetrati dalle brigate al-Qassam il 7 ottobre, il ministro degli esteri israeliano aveva da poco definito il Sudafrica il braccio legale dei terroristi di Hamas. Nel sollevare davanti alla Corte una disputa sull’applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, di cui Israele è convinto firmatario, il Sudafrica ha centrato un crimine per il quale vige proibizione assoluta.

Il campo di battaglia legale ruota interamente attorno alla plausibilità del caso sollevato: nelle prossime settimane sapremo non del genocidio in sé (per il giudizio di merito potrebbero servire anni) ma sull’ingiunzione di limitazioni provvisorie (restraint) all’azione di Israele.

L’eterno dissidente Norman G. Finkelstein – autore di L’industria dell’Olocausto e bandito da Israele, che ha definito stato suprematista ebraico – ha recentemente spiegato come ci sia poco da aspettarsi dalla Corte, essa stessa fotografia dei rapporti di forza internazionali. I giudici sono 15, di nomina nazionale, con un seggio assicurato per i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Oltre a Usa e Regno Unito, è difficile immaginare Cina e Russia, accusate di atti genocidari nello Xinjiang contro gli uiguri)e in Ucraina, voler aprire il vaso di Pandora della convenzione sul genocidio. Fra gli altri dieci stati, ci sono Germania, Australia e Uganda, fortemente allineate con Israele. Più difficile prevedere l’attitudine dell’India di Modi (segnata dalla scia di violenze sui musulmani), così come il voto francese, giamaicano e giapponese. I giudici nominati da Brasile, Marocco, Somalia, Libano probabilmente voteranno per la plausibilità del caso di genocidio.

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SE IL VOTO è in bilico, la realtà è ostinata. Non esiste nel diritto internazionale (se ne resta qualcosa) un diritto all’autodifesa assoluta, tale da giustificare crimini di guerra; tanto più se, sostenuti da inequivocabili dichiarazioni circa gli intenti perseguiti, tali crimini si configurano come atti genocidari. Davanti alla forza devastante dei fatti, l’obiezione israeliana circa la competenza della Corte (assenza di previo dissidio fra Israele e Sudafrica) appare debole.

Lo stesso si può dire del fatto che le dichiarazioni incriminate non costituiscono la politica ufficiale di Israele: sono state ripetute ai media dai massimi livelli del governo e dello stato israeliano. Fatti probanti sono sotto gli occhi di tutti: Israele ha fatto saltare l’intero sistema umanitario di Gaza, gli scarsi aiuti che consente non possono essere distribuiti, mentre medici e personale Onu sono uccisi a decine. Il concetto stesso di necessità militare è detonato nel momento in cui il «Pentagono di Hamas» che si sarebbe nascosto sotto l’ospedale al-Shifa a Gaza si è rivelato un singolo tunnel.

Le tensioni fra Sudafrica, Israele e Occidente hanno una storia che riporta alla prima conferenza di Durban contro il razzismo (2001), all’evocazione dell’apartheid israeliano e alle accuse di antisemitismo. Sono seguiti dissensi attorno ai rapporti di Pretoria con Putin, inseguito da un mandato di arresto per crimini di guerra in Ucraina, nonché con altri leader accusati di massacri sistematici (es. il leader delle Rsf sudanesi, Hemedti).

La lettura postcoloniale, che vede nel processo dell’Aia la sfida alle gerarchie internazionali, non fa mistero del peso che attribuisce alle identità, spesso operando riduzioni problematiche. Saremmo semplicemente davanti a una maggioranza nera africana, uscita da un regime bianco di apartheid, che difende i palestinesi ‘scuri’ nella sfida alla supremazia bianca globale, incarnata in primis da Usa e Israele.

DOPO SECOLI di razzismo, persecuzioni, pogrom e un genocidio su ampia scala, è certamente riduttivo e distorsivo rappresentare Israele come ‘bianco’. E tuttavia il problema del colonialismo di insediamento esiste, come esiste un problema di genocidi che si danno su diverse scale e modalità. Genocidi al plurale, tanto più se si includono quelli selettivamente dimenticati nell’era coloniale.

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Il credito di cui gode internazionalmente il Sudafrica, paese che si è liberato del brutale regime di segregazione razziale optando per la difficile strada di una democrazia in cui una testa vale un voto, è un fatto reale, che la piazza di Ramallah ha fatto rivivere l’altro ieri ai piedi della statua di Mandela.

Si è molto detto e scritto sul pericolo che la guerra a Gaza di allarghi. È un fatto che oggi molti, nel sud del mondo, vedano l’intervento occidentale contro il governo yemenita (che ci ostiniamo a chiamare «i ribelli Houthi») non tanto come tutela della legge internazionale e del libero commercio, ma come la scelta delle grandi potenze bianche di passare dalla diplomazia e il sostegno a Israele a un coinvolgimento diretto nella guerra.

Ricordiamo come anni fa gli alleati occidentali sauditi pensassero di sconfiggere gli Houthi con una settimana di bombardamenti. La guerra non è ancora finita, e i leader di Riad oggi temono le pressioni di un’opinione pubblica massicciamente filopalestinese, che condanna gli interventi angloamericani nel Mar Rosso. Da questo punto di vista, la guerra si è già allargata. Il campo di battaglia legale forse offre un’ultima opportunità per la politica.

* Fonte/autore: Francesco Strazzari, il manifesto



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